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     Mark fece due passi per allontanarsi da Daphne, si passò le enormi mani ruvide tra i capelli raccolti in una coda e poi sul viso, per togliersi di dosso la tensione.

«McSly lo sa?» Domandò, ma dall'espressione scocciata che aveva si intuiva che si aspettasse una risposta negativa.

«Gliel'ho scritto in una lettera, l'ha letta oggi. Ha provato a chiamarti per sapere di Jay e per scusarsi, credo.»

«Sì, ho ricevuto le sue chiamate.» Fece una pausa. «Lui come sta? Come l'ha presa?» Si interessò dimenticandosi improvvisamente del rancore nei suoi confronti.

«Non molto bene, è distrutto. E continua a bere.»

Mark fece un sorrisetto e scosse leggermente la testa. «Ancòra.» Si disse sottovoce, per nulla sorpreso.

«Voglio andare in tribunale.» Dichiarò la ragazza. «Come testimone.» Aggiunse. L'uomo si voltò nella sua direzione. «Magari indagano anche su Hanson e su Katrin e lasciano in pace Jay.»

«Sarebbe il minimo.» Prese il cellulare dalla tasca della felpa e cercò il numero di Damien. Lo fissò a lungo prima di decidersi di chiamare.

Il ragazzo rispose quasi subito, come se avesse avuto accanto a lui il telefono per tutto il tempo.

«Mark! Come sta? Dove siete? È in ospedale, vero? Dimmi che almeno stavolta ce l'hai portata.» Ma Mark non riuscì a parlare. «Mark, parlami ti prego! Immagino tu sia arrabbiato, ma parlami, ti prego. Dimmi come sta. Ti supplico, Mark!» L'uomo spense la chiamata.

Non ci riesco, Damien... - pensò in preda alle lacrime.

Al college, Damien imprecò. Si mise un paio di scarpe e corse al piano terra. Sapeva già dove andare e cosa fare: ufficio del preside.

«Professore, temo sia successo qualcosa di grave a Jay. Mi può accompagnare in ospedale?» Disse trafelato appena giunto sulla porta dell'ufficio.

Michael Nickins, intento a bucare una fila di fogli con lo sguardo, incapace di pensare al lavoro, fissò quel ragazzo dal volto scavato e pallido, arrossato attorno agli occhi, i capelli arruffati. Annuì solamente, si alzò con decisione e lo condusse al parcheggio. Si diressero verso l'ospedale, in meno di un quarto d'ora erano già là. Durante il tragitto lo vide calmo e distaccato, guardava solamente fuori dal suo finestrino e continuava a mordersi le labbra e sbattere le palpebre, probabilmente per trattenere le lacrime. Quando fermò la macchina, il ragazzo si trasformò in una tempesta: scese in fretta e furia senza nemmeno chiudere la portiera e si diresse al bancone delle informazioni appena oltre le porte automatiche a vetro. Gli dispiaceva aver calpestato la parola data all'amico Mark, ma non poteva impedire quella cosa. Stava pensando alpeggio anche lui e non poteva trattenere quel ragazzo dallo scoprire la verità.

Damien era agitato oltremisura, arrivò persino ad urlare all'assistente al bancone per ottenere il numero della stanza dove era ricoverata l'amica. Lo ottenne: primo piano, stanza ventuno.

Non si rese conto di piangere copiosamente, i pensieri confusi non gli definivano un bel quadro della situazione. Salite tutte le scale, arrivò al primo piano.

«Daphne!» Vide la ragazza in corridoio e la chiamò per attirarle l'attenzione. Era sola sul pianerottolo, si vedeva che aveva pianto e questo spaventò il ragazzo. «Dov'è? È qui? Dov'è Jay?»

Mark riconobbe la voce in corridoio, uscì dalla stanza e si fermò sulla porta. Lo vide, ma non poteva essere lui.

«Dov'è? È... andata, vero? Se n'è andata, Daphne? Rispondimi, maledizione!» Continuava a domandarle e a imprecare tenendola stretta per le braccia e strattonandola. Con la coda dell'occhio notò una figura familiare: Mark. Lo fissò disperato, gli occhi lucidi, il mento tremante. Senza dire nulla mollò la presa sulla ragazza e si diresse verso l'amico, lo evitò ed entrò con furia nella stanza mormorando il nome di Jay in una cantilena ossessiva.

Irish coffee and northern poppiesDove le storie prendono vita. Scoprilo ora