Capitolo quattro, Ashlee

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Non è morto. Non posso ancora crederci.

Quando quel pomeriggio un paramedico mi ha chiesto chi fossi, mi è venuto spontaneo dire che ero la sua ragazza.

Tanto ormai non aveva più importanza. Tanto ormai era morto e le cose non sarebbero potute cambiare, lui non avrebbe potuto protestare o rispondermi a tono come fa sempre. Avrei potuto anche dire che ero sua sorella e non sarebbe cambiato nulla comunque.

Siccome ero la sua ragazza, il paramedico mi aveva dato la possibilità di salire sull'ambulanza insieme al suo corpo inerme. Non capivo, davvero. Se era morto, non aveva senso.

Ero palesemente sotto shock. Non riuscivo a capire perché mi avevano chiesto di accompagnarlo se ormai era privo di vita. Durante la corsa in ospedale infatti mi hanno dato dei calmanti perché il mio corpo non ne voleva proprio sapere di smettere di tremare.

Solo quando mi ritennero in grado di ragionare di nuovo lucidamente, mi avevano lentamente spiegato che in realtà avevo sentito male. Che il battito, seppur minimo, c'era. E che il ragazzo steso sulla barella aveva la possibilità di tornare quello di prima.

Quando ho afferrato il concetto, inaspettatamente sono scoppiata in lacrime. Di gioia. Ero davvero contenta che la sua vita non fosse andata sprecata. Ero contenta che avrei potuto vedere di nuovo i suoi intensi occhi marroni, i suoi capelli color castagna e l'Eyebrow che gli sta fottutamente bene. Ero felice che avrei potuto prenderlo a parolacce, litigare con lui, che è la cosa che mi riesce meglio, dato che ci detestiamo a vicenda, forse senza un motivo preciso.

Ricordo di avergli tenuto la mano sporca del suo sangue per tutto il tempo, mentre con l'altra continuavo a tracciare i lineamenti del suo profilo, sentendo il ruvido causato dalla sua barba di due giorni sotto la punta delle mie dita. E le lacrime che ovviamente continuavano a scorrere per le mie guance.

Non sapevo cosa fare. Se chiamare qualcuno, avvisare Lucas, il suo migliore amico, così che avrebbe potuto contattare la sua famiglia, dato che per lui sembra essere un argomento tabù. Non mi ha mai parlato della sua famiglia, neanche quando sono stata io stessa a fargli delle domande. Però alla fine avevo deciso di aspettare.

Forse non serviva far agitare Lucas, i nostri amici e la sua famiglia per qualcosa che non era poi così grave, dato che i paramedici sull'ambulanza mi dissero che il mio ragazzo avrebbe potuto tornare quello di sempre.

Però grave lo era, perché, quando arrivammo all'ospedale passando per il pronto soccorso, gli diedero il codice rosso e lo fecero passare avanti a moltissimi pazienti che si trovavano in sala d'attesa. Iniziarono a rivoltarlo come un calzino, a portarlo da un reparto all'altro, da chirurgia ad ortopedia, mentre le ore passate in sala operatoria non sembravano finire più.

E io sono rimasta con lui per tutto il tempo, tra le quattro pareti della sala d'aspetto. Guardavo l'orologio ogni cinque minuti, con l'ansia che un medico sarebbe potuto uscire da un momento all'altro dalla porta per comunicarmi che purtroppo non ce l'aveva fatta, che aveva perso molto sangue e che non erano riusciti a bloccare l'emorragia in tempo.

E io ero lì a chiedermi quando avrei potuto vederlo di nuovo. Ho passato tantissime ore, che poi sono diventati giorni, lì fuori a fissare le pareti. Ho guardato quelle mura tristi e spoglie cambiando stato d'animo di continuo. Passavo dalla felicità perché non era morto, alla tristezza mista ad ansia per l'attesa. Tra i milioni di caffè che prendevo, continuavo a chiedermi perché era stato talmente stupido da avvicinarsi a quei quartieri malfamati della città, frequentati da persone che di buono hanno poco o niente. Ero incazzatissima con lui per averlo fatto.

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