Capitolo 41 ✔

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Alex

Stupido, coglione!

Non mi ero ripetuto altro da quando avevo scoperto Mia nascosta nel bagno.

Coglione, coglione, coglione!

Continuavo a rimproverarmi, prendendo a pugni il volante dell'auto e girovagando per il quartiere senza una meta precisa. Pioveva, tanto e forte, ma non volevo stare a casa, passare del tempo nella mia stanza non avrebbe fatto altro che ripropormi ogni attimo che volevo tenere lontano, senza contare che non volevo essere rincorso da Serena. Non ero ancora pronto a una delle sue strigliate, non ce l'avrei fatta a mantenere la calma mentre lei mi rinfacciava i miei errori e non volevo distruggere anche un altro rapporto a me essenziale.

Avevo rovinato tutto. Peggio: avevo perso tutto. Avevo perduto lei.

Era distruttivo continuarci a rimuginare, lo sapevo bene, eppure non riuscivo a spostare un solo pensiero da Mia, da quel suo viso distrutto per la delusione, dai suoi occhi lucidi per via dei miei sbagli, del mio egoismo.

Non riuscivo neanche più a tenere le lacrime e questo aumentava ulteriormente la rabbia verso me stesso. Avvertivo un dolore all'altezza del petto, come se qualcuno ci avesse appoggiato un ferro rovente: uno sfrigolio continuo che fondeva la pelle e faceva urlare il mio io interiore. Quello esteriore, invece, a parte le lacrime che mi ero premurato di far sparire immediatamente, pareva solo incazzato, quasi fossi io la vittima e non il carnefice.

Mi ripetevo che quello che sentivo non era nulla in confronto a quello che le avevo procurato. Le avevo fatto il cuore a pezzi, l'avevo distrutta in ogni piccola parte del suo essere. Avevo giocato con la sua ingenuità e mi ero impossessato della sua dolcezza.

Volevo fosse mia e c'ero riuscito a prendermela, peccato che io non ero mai stato capace di tenermele strette le cose importanti.

Svoltai in un vicolo secondario non molto distante da casa sua, parcheggiai l'auto a metà tra il marciapiede e l'asfalto e provai a chiamarla. Non mi aspettavo mi rispondesse, anzi no, credevo lo facesse per riempirmi d'insulti, per intimarmi di non farmi più vedere o sentire e poi riattaccarmi in faccia con una cattiveria che non le apparteneva ma della quale ero l'artefice.

Alla fine, fu un mix delle due cose: mi riattaccò in faccia senza rispondere.

Quasi mi venne da ridere quando sentii la segreteria partire, la frenai a stento quella risata isterica che preannunciava l'aumento di una sofferenza che già mi mozzava il respiro.

Ero rimasto solo, a terra, sanguinante. Un soldato senza armi con le quali combattere; un soldato che ha perso prima la battaglia e poi la guerra. Indifeso alla mercé del suo peggior nemico: il senso di colpa.

E a quello non c'è soluzione, ti logora dentro, distrugge ogni cosa bella e ti priva delle forze per poter rimediare al danno.

Ma come si ripara uno strappo al cuore di quelle dimensioni quando sono io ad averlo procurato?

Provai nuovamente a chiamarla, mi avrebbe riattaccato di nuovo ma questo non mi fermò. Sarebbe solo stato un altro schiaffo meritato.

Aveva spento il telefono. Non voleva essere cercata, non voleva essere disturbata da me e non la biasimavo. Io avrei fatto di peggio... molto di peggio.

Ripresi a guidare tra il traffico romano. Se, di solito, era stressante, quella sera quasi mi rilassò. Le luci dei fari, dei semafori, le voci di quei pochi coraggiosi che correvano sotto la pioggia riparati da striminziti ombrelli che non sapevano neanche tenere testa a quel poco di vento. Mi sentivo come parte di qualcosa che non mi apparteneva davvero, come se quegli sconosciuti si prendessero per qualche secondo un po' del mio dolore e mi lasciassero respirare per un attimo prima di riconsegnarmelo.

Hug Me - Siamo Chi Siamo #1 (Conclusa)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora