17th

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Caro Tu,
non hai mai pensato a come vita e morte siano strettamente collegati? Ci hai mai fatto caso? Prendi, per esempio, una ragazza che parla di un suo parente, morto qualche giorno prima. Anche se non conosceva questa persona benissimo, magari era solo un pro zio antipatico che viveva lontano, quando ne parla ha la gola chiusa, e gli occhi sempre più rossi e umidi. Magari a un certo punto deve anche interrompersi e guardare in alto, per non piangere.
Oppure, pensa a David Bowie. Prima, solo pochi lo ascoltavano regolarmente, non si era mia vista una sua canzone –Changes, per esempio– tra i più scaricati nelle tendenze del periodo. Ma quando morì, l'anno scorso, tutti subito sono diventati i più grandi fan del cantante, e le classifiche erano invase dalle sue canzoni.
Ho odiato quel periodo, perché David Bowie venne così commercializzato che persino Chiara Ferragni ci fece delle scarpe, usando il logo più rappresentativo di Bowie.
Questo succede perché è innato, negli uomini, un senso di dolore comune, che unisce tutti di fronte a una situazione che porta alla sofferenza —una morte, per esempio. Quello che provoca questa sensazione è una reazione vitale, che serve a ricordare ai sofferenti che la vita c'è ancora, ed è la cosa più preziosa che si potrebbe avere.

Così è successo quella notte, a Montreal, con François. Stavamo dormendo, dopo aver fatto un giro attraverso l'intera città per tutto il giorno. Fran teneva un braccio sotto il cuscino, facendo sporgere la mano così che io potessi stringerla anche durante la notte. Gli volgevo le spalle, perché mentre lui preferisce dormire a pancia in su, io non riesco a non ruotare su un fianco prima di addormentarmi.
Ad un certo punto, sentii il mio respiro farsi sempre più impossibile, tanto che il cuore prese a battere sempre più rapidamente. Dopo poco, il ritmo si fece così insostenibile che mi ritrovai a saltare qualche inspiro, interrompendo il moto armonico che di solito caratterizza il respiro. Con il respiro che mancava, e il cuore che pulsava sempre più velocemente, stringevo senza rendermene conto la mano di Fran, che si svegliò incuriosito. Non appena mi domandò  cosa stesse succedendo, cominciai a tremare, senza più respirare. François si spostò subito di fronte a me, per vedere se magari stavo mimando qualcosa con la bocca, ma l'unica cosa vide —mi disse— erano i miei occhi impauriti pieni di lacrime, che lo pregavano di aiutarmi. Così, boccheggiai alla ricerca di aria, e sussurrai la parola che lo portò alle medicine. Si buttò a correre verso la cucina, e in pochi secondi tornò in camera con il flacone delle medicine in mano. Io, intanto, mi ero rannicchiata su me stessa con una mano stretta intorno alla zona del cuore, per cercare di strapparmelo via da sola. Fran mi raccontò che lui stesso non vedeva niente dalla paura, perché non aveva mai vissuto una situazione del genere, e non gli avevo detto niente riguardo a un attacco così forte di tachicardia. Mi aiutò a ingoiare le medicine, mentre mi guardava in lacrime con una mano appoggiata alla mia testa, e in testa solo alcune preghiere. La reazione dei medicinali, dopo una decina di secondi, cominciò a fare effetto. Così, il ritmo cardiaco tornò normale, e presi l'inalatore che mi portavo sempre dietro, per tornare a respirare normalmente.
Appoggiai la bomboletta sul comodino accanto al letto di Fran, e quando mi voltai verso di lui, mi abbracciò stretta, stendendosi accanto a me, con le braccia che mi tenevano accollata a lui, vicina tanto da poter sentire il suo respiro sulla fronte, e il suo battito del cuore accanto al mio. Mi strinse per tutta la notte, sussurrandomi parole che cercarono di calmarmi, ma che non ottennero il risultato sperato. Continuai a piangere per quasi un'ora, con l'idea della Morte a pochi passi da me, che mi attendeva a braccia aperte.

La stessa cosa è accaduta ieri notte, dopo quasi due anni dall'ultima volta. Passammo la giornata di ieri a camminare, senza mangiare tanto e senza fermarci a respirare. L'unico momento di relativa pace era a cena, quando andammo a mangiare in un ristorante con papà e zio Jar.
Tornammo a casa la notte, e io ero talmente stanca che mi addormentai in taxi. Ocean dovette portarmi in braccio dalla strada fino alla camera.
Dopo poco, mi prese un'attacco d'asma, con conseguente tachicardia, esattamente come con François, e la reazione di Sean è stata esattamente identica a quella di Fran. Mi alzai a sedere sul letto, con il viso sudato e bagnato dalle stesse lacrime di due anni prima. Sean si accucciò davanti a me, ai piedi del letto, e mi teneva il viso stretto fra le mani, che mi accarezzavano con delicatezza le guance, i capelli, il collo. Non disse niente, ma dopo un po' mi fece stendere sul letto, e mi strinse fra le braccia con dolcezza. Ogni tanto mi lasciava un bacio sulla testa, e continuava a muovere la mano sinistra su e giù sul mio braccio, per creare una situazione di tranquillità.

In quei minuti interminabili, che mi sembravano essersi prolungati così tanto fino a diventare anni, non riuscii a non pensare a come, la mattina stessa di ieri, Ocean e io stavamo camminando, con il sole di fronte a noi, per la foresta di bambù, a Kyoto. Parlammo per tutto il tempo, passando da "Mamma mia che freddo che fa", a "Ma perché mi ha fatta alzare così presto, mannaggia a te", a "Effettivamente un po' mi spaventa il Futuro, l'incertezza di quello che può accadere". Mi sentivo così viva, la mattina, con l'alba negli occhi, la mano di Ocean che stringeva la mia, e la sua voce imbellita dall'accento britannico nelle orecchie.

Continuai a piangere per un po', perché la mia mente non riusciva a smettere di confrontare la vitalità della mattina, e di tutta la giornata di ieri, con la seconda esperienza di quasi-Morte di ieri notte, minacciosa come due anni fa.

dal Giappone con furore,

Ronnie.

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lu.

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