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Mi vesto rapidamente con una mega felpa grigia che mi copre le mani, un paio di jeans neri un po' strappati alle ginocchia, delle scarpe da tennis nere rovinatissime, metto un filo di mascara, butto le mani sui capelli neri e ci farfuglio, uso di raro la spazzola.
Prendo la mia borsa e la cartelletta con tutti gli spartiti per il pianoforte ed esco di casa senza salutare.
M'immergo nelle strade di Milano in questo freddo sabato mattina di inizio autunno.
Prendo il primo autobus che passa e scendo alla fermata davanti alla scuola di musica in cui insegno.
Lunedì sono ripresi i corsi dopo l'estate e stanno iniziando ad arrivare dei nuovi piccoli allievi.
Entro nella mia sala e chiudo la porta alle mie spalle.
Mi siedo al pianoforte e sfoglio la mia agenda per vedere con chi ho lezione oggi.
Tra qualche minuto ho lezione con l'adorabile Giacomo. Ha solamente 7 anni ed è già un vero prodigio del pianoforte! Ha due guanciotte rosse come ciliegie che passerei le ore a pizzicare.
Successivamente ho una nuova bambina. Si chiama Luna e ha 9 anni.
Non vedo l'ora di conoscerla, sono sempre troppo felice quando ho nuovi allievi. Adoro conoscere nuove piccole teste che s'ingarbugliano nel mondo intrigante e fatato della musica.

‹Ci vediamo mercoledì per la lezione in più, Nocciolo. Studia, eh!› spesso e volentieri chiamo così il piccolo Giacomo per gli occhiali tondi che porta. Mi fa tantissima tenerezza!
Dopo questa soddisfacente lezione con lui, aspetto ansiosamente Luna.
‹Scusa, è permesso?› bussano alla porta.
‹Ehm, sì, avanti!› getto uno sguardo all'entrata, passandomi una mano fra i capelli.
Mi compare davanti un ragazzo che tiene per mano una bimba adorabile con due codine bionde.
‹Piacere, Connor. Sono il fratello di Luna› si presenta stringendomi la mano.
‹Io Nicole› gli sorrido, cercando di dare una buona impressione. Cerco di essere sciolta ‹Connor... Non sei italiano, no?›
‹Ho origini inglesi. I nostri genitori vengono da Manchester. Io sono nato lì, mentre Luna qui› mi conferma.
È il primo cliente di origine inglese che ho, e questo mi affascina molto, a parte il fatto che anche mio padre era di Manchester. È l'unica città del Regno Unito che non vorrò mai visitare.
‹Adoro l'Inghilterra, ma non ci sono mai stata. È uno dei miei più grandi sogni. A Londra ci sarai stato...› domando indirettamente per far procedere la conversazione.
‹Quando ero piccolo, infatti ricordo davvero poco›
‹Capisco. Bene dai, ora inizio lezione con Luna. Passi a prenderla ancora tu, dopo?›
‹Certo, ci vediamo dopo. Buona lezione!› da' un bacio sulla guancia a Luna e si dirige all'uscita facendo un cenno di saluto.
Luna non ha mai studiato pianoforte, quindi dovrò iniziare tutto da capo, partendo dalle basi.
‹Vorrei che mi raccontassi qualcosa di te, hai voglia? Lo chiedo a tutti voi nuovi allievi, per conoscervi meglio› inizio, cercando di metterla un po' a suo agio.
Dunque mi racconta che ha appena iniziato la quarta elementare e che non le piace per nulla, ha molti amici, è innamorata di un bambino di quinta e da grande vuole fare l'attrice. È molto chiacchierona ed estroversa, ed io adoro i bambini così, mi trasmettono allegria.
Inizio a spiegarle un po' le varie parti del pianoforte, per prendere confidenza con lo strumento.
Luna è davvero dentro il pezzo, è molto partecipe. Continua ad interrogarsi su tutto, volendo sapere curiosità e qualche approfondimento.
A parer mio questa bambina ha un'intelligenza troppo avanzata per la sua età, e di questo rimango veramente stupita e meravigliata, affascinata.
‹Bene, ora che ti ho spiegato com'è strutturato questo strumento, e anche perché vedo il tuo entusiasmo che mi fa molto contenta, iniziamo a vedere qualche scala, ti va? Sai cosa sono?› le domando.
‹Sì, so cosa sono, ma non so spiegarlo...›
‹Prova a dirne una, quella che sanno tutti›
Do, Re, Mi, Fa... Poi... Sto dicendo giusto?›
‹Sì, sì, continua! Fa, Sol...
‹...Ah! Sol, La, Si... Ehm... Basta›
‹C'è anche un altro Do alla fine ed il Fa è diesis, ma lo vedremo. Comunque molto bene, direi! Sai anche come si chiama questa scala?›
Mi fa cenno di no con la testa.
‹Te lo dico io. È la scala di Sol Maggiore. Che ne dici se la proviamo a suonare?› mi siedo al pianoforte accanto a lei ‹Okay, ora la suono io. Prima lentamente, per farti vedere che tasti schiaccio e dove si trova questa scala, poi la eseguirò più velocemente›
La eseguo, spiegandole man mano a che note corrispondono i tasti che premo.
‹E quel tasto nero che hai schiacciato prima? Voglio sapere a cosa serve lui e tutti gli altri. Pensavo che serve per sostituire quelli bianchi se si rompono, ma tu l'hai appena usato e i tasti bianchi ci sono tutti› mi domanda, curiosa.
Accenno una risatina ‹No, no. Quelli sono i bemolle e i diesis. I bemolle sono note di mezzo tono più basse rispetto ai tasti bianchi, mentre i diesis hanno mezzo tono in più. I tasti bianchi, invece, si chiamano bequadri, capisci? Bene, questo› suono un Do ‹è un Do bequadro, mentre questo› suono il tastino nero ‹è il Do diesis, ma non ti preoccupare se non hai ben capito, tanto è un argomento che vedremo più avanti, ora è ancora troppo presto, abbiamo appena iniziato!› le sorrido.
Lei ricambia, annuendo.
‹Ora vuoi provare tu a suonare la scala di Sol Maggiore?› le propongo.
Entusiasta appoggia le mani sul piano, suonando perfettamente la scala.
‹Wow, direi che sei già una professionista!›
Lei ride.
‹Dai, risuonala che poi ti lascio andare a casa, se sono già arrivati a prenderti› la invito.
Mentre lei prova e riprova la scala, suonando come se avesse confidenza con questo strumento da una vita, apro la porta per vedere se suo fratello è già arrivato.
‹Eccoti! Puoi venire dentro› gli dico spostandomi per farlo passare all'interno dell'aula.
‹Connor, Connor! Mi piace da morire! Possiamo venire ancora domani? Ti prego! Ti prego!!› lo raggiunge Luna, per poi abbracciarlo.
Lui ride ‹Domani no, piccolina, ma sabato prossimo sicuramente torniamo!›
È una scena che mi mette così tanta tenerezza che vorrei scattargli una foto. Non ho mai avuto un rapporto così con mio fratello, quello è solo un ragazzino patetico e imbecille. Invece loro si vede che sono proprio legati, e questo mi rende particolarmente invidiosa.
‹Grazie mille Nicole, ci vediamo settimana prossima› mi distrae Connor.
‹Certo, vi aspetto, grazie a voi!›
Una volta rimasta sola, chiudo la porta e ritorno al pianoforte.
Frugo dentro la mia cartelletta cercando il libro delle basi del pianoforte, quello per i bambini, per iniziare a preparare la lezione di settimana prossima per Luna.
Tra la confusione trovo uno spartito formato da tre fogli uniti tra loro con dello scotch. Sono tutti stropicciati e sporchi, macchiati, e attirano inevitabilmente la mia attenzione aquilina. Mio Dio, che roba è? Sembra un reperto degli anni '30.
Lo studio per la lezione di Luna può aspettare.
Prendo in mano quella cosa ripugnante e l'occhio mi cade immediatamente sul titolo.
"Ricomincio da me".
Improvvisamente ricollego tutte quelle macchie, terribilmente marroni, al caffè che bevevo per tenermi sveglia durante le prove notturne da sola qui, in questa sala, e la sporcizia all'eccesso di uso di matita graffite per correggere errori o mettere diteggiature.
Per un momento non collasso.
Il mio cuore si arresta e la mia mente fa un viaggio brevissimo nel tempo.
Questo brano è stato uno dei primi dei Dear Jack, il mio preferito fra tutti.
Lo presentai ad un concorso l'anno scorso e mi piazzai anche molto bene tra tutti i partecipanti della mia categoria.
Rivedere questo spartito è come morire dentro.
Il mio primo istinto? Strapparlo in mille pezzettini fino a renderlo completamente invisibile, farlo sparire dalla mia vista e dall'intera faccia della Terra ma, sorprendendomi da sola, lo appoggio sul leggio e mi siedo al piano.
Con un nodo enorme allo stomaco appoggio le mani sui tasti del pianoforte nel modo più delicato e lento che posso, come se avessi paura di prendere una scossa.
Suono la prima nota.
Un brivido mi infastidisce la schiena.
Subito mi spavento e tolgo le mani da quei rettangolini bianchi e neri, che ora mi paiono un'etichetta di qualche prezzo, dato l'attacco di giramento di testa che mi è preso.
Tiro uno schiaffo sulla schiena, cercando di scacciare quella fastidiosa sensazione.
Una sensazione orrenda.
Mi si riempiono gli occhi di lacrime enormi e sono improvvisamente bloccata e paralizzata.
Non voglio piangere. No.
Rimando indietro le lacrime mentre cerco di respirare più a fondo che posso.
‹Tranquilla, è solo una stupida canzone di merda. Ora prendi i fogli e... e li strappi, li butti, li bruci, li affoghi nell'acqua, li elimini› chiudo gli occhi per non far straripare le lacrime.
Spero solamente non entri nessuno, sto parlando da sola.
Contro la mia volontà, appoggio, di nuovo, le mani sul pianoforte.
Devo bruciare quelle pagine all'istante.
Riprendo a suonare. Ma che succede?
È un ammazzarmi da sola, me ne rendo conto, ma non riesco a placare i voleri del mio corpo.
È un suicidio tutto ciò, ma non so nemmeno perché lo sto facendo, sono incontrollabile fuori, ma del tutto ferma dentro, aiuto.
Suono tutto il brano, a volte chiudendo gli occhi, accorgendomi di ricordarmi ancora tutto il pezzo a memoria, senza sbagliare alcuna nota o modifica apportata all'ultimo minuto il giorno stesso del concorso.
Premo intensamente sul tasto che emette l'ultima nota e, stranamente confusa, noto di avere ancora gli occhi chiusi. Li riapro all'istante.
Mi sento strana. E rilassata. E forse anche felice. Il mal di testa mi è passato e ho voglia di buttarmi su un tappeto di fiori e rimanerci lì a vita.
Sento la mia mente vuota, leggera. Com'è bella senza pensieri all'interno, così spaziosa.
Mi sento nuova e bella.
E mentre una lacrima prende a cadere sulla mia guancia, provo un sollievo e una liberazione tale che potrei urlare di gioia da un momento all'altro.
Hey, calma, frena un secondo. Che cosa?!
Totalmente spostata dal mondo intero e, stranamente, con la sensazione di volare, raccolgo le mie cose e faccio ritorno a casa.

‹Cos'è successo oggi? Ti trovo particolarmente felice› mi chiede mia mamma mentre stende la tovaglia sul tavolo, è quasi ora di cena.
La osservo confusa e con sguardo fulmineo ‹Non posso essere felice?› le domando acidamente.
‹Ti ho solo domandato› sembra esserci rimasta male ‹In questo periodo ti vedo triste, giù di morale, volevo sapere il motivo della tua improvvisa felicità, tutto qui›
Allora si nota davvero tanto che sono felice, eppure mi sento ancora strana. Ci devo dormire su ‹Deve esserci per forza un motivo?›
‹Ma anche tu, mamma, dai, non perdere tempo dietro a questa, lasciala stare› infastidisce mio fratello scendendo le scale per poi irrompere fastidiosamente in cucina.
‹Tu che vuoi? Chi ti ha chiamato?› gli domando. Se continua lo prendo a schiaffi.
‹Sono venuto per mangiare, se non ti dispiace. Uh, pasta al sugo stasera?› si siede a tavola.
Lo guardo schifata ‹Magari prima di accomodarti potresti aiutare ad apparecchiare, maleducato!› urlo, lanciandogli un tovagliolo di carta in faccia ‹E stronzo, soprattutto stronzo!› urlo ancora di più mentre mi allontano ‹Stasera io non mangio!›
Mi chiudo in camera mia.
È mai possibile che deve sempre finire così?
Devo dare sempre spiegazioni ed ora, addirittura, avrei dovuto spiegare il motivo della mia felicità!
Sì, il motivo c'è eccome, anche se ancora non ho ben capito perché mi abbia fatto questo forte effetto ma, a prescindere da ciò, c'è qualcosa di male se sono felice?
Se non avessi avuto motivi e fossi stata semplicemente felice?
È come se non avessi il diritto di esserlo perché quando mi butto giù ritorno quella ragazza acida la quale tutti fanno fatica a capire e non vorrebbero come amica.
Dunque non posso essere felice.
Vado a dormire con una fame immensa, lo stomaco impreca contro di me, ma non vado a mangiare per non sentire i commenti fastidiosi di mio fratello. Non ci vado per orgoglio.

I pensieri fanno a pugni nella mia testa e non ci capisco più niente.
Sono le 2 di notte e ancora non ho chiuso occhio, ma ci sono abituata.
Vorrei dormire, e basta. Dormire per un tempo indeterminato.
E ho fame.
Voglio chiamare Lea e Celeste, all'istante, ma non voglio disturbarle con le mie paranoie.
Domani le vedrò e non vedo l'ora, ne ho bisogno.
Non voglio raccontargli nulla, so che poi si preoccupano. Voglio solamente stare con loro per distrarmi un po'.
E ora voglio dormire, cazzo. Continuo a svegliarmi e riaddormentarmi.

Sono le 4, basta, basta pensieri, basta.

«Prendi quel microfono e canta» // Alessio Bernabei [COMPLETA]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora