33. Hell

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"Ciò che non mi uccide mi rende più forte."

_ Friedrich Nietzsche

Il buio, terrificante e calcolatore, s'addensava intorno a lei annebbiando la capacità di mantenere sangue freddo in quel silenzio tombale. Le tenebre avvolgevano ogni parte di ogni luogo e se non fosse per la vista amplificata, in grado di codificare ogni oggetto e il posto in cui si stesse per addentrare, con più probabilità si sarebbe smarrita in quel tugurio infernale.

Aveva udito uno scalpitìo di passi felpati accompagnati da mormorii e da ringhi perturbati avvicinarsi al piano in cui si situava lei, ma poi avevano fortunatamente deviato alle scale che si dirigevano al piano superiore. Il sospiro di sollievo che aveva rilasciato, a quella notizia rassicurante, le aveva svuotato i polmoni.

Era ancora alla ricerca di un nascondiglio ove potercisi rifugiare, nonostante fosse consapevole dell'inevitabile suo ritrovamento da parte di uno di quelle fecce. Avrebbe desiderato per questo scendere al piano terra e fiondarsi verso la prima porta che la sottraesse da quella tenuta, ma non sarebbe stata la mossa più sicura ed intelligente. Era certa che almeno uno di quegli omoni la stesse cercando, a conoscenza che non fosse andata tanto lontano, ed era altrettanto convinta che non avrebbe impiegato lungo tempo a beccarla se non si fosse decisa a trovarsi un riparo.

Non aveva idea di dove si trovasse, correndo all'impazzata non aveva calcolato le rampe di scale salite, e adesso non sapeva con precisione quale piano avesse raggiunto.

Il cuore le balzò al petto d'un tratto, la paura le trapassava ogni centimetro della sua pelle, nel momento in cui passi lenti si distinsero in quel silenzio assordante. E quei passi, lenti ma penetranti che parevano voler lasciare un'impronta indelebile sul pavimento laccato, non potevano che appartenere ad una sola persona.

Col respiro affannoso a causa del terrore che le comprimeva il petto, la ragazza si guardò intorno aguzzando la vista e tentando di concentrarsi su una delle innumerevoli porte che le desse un'agevole impressione. Presa da un'angoscia soffocante, si buttò dentro la terza porta presente alla sua sinistra, di legno marrone scuro, non disponendo di altra opzione. Se la chiuse alle spalle non facendola cigolare per sua fortuna, e in punta di passi camminò all'interno di quella che sembrava una semplice camera da letto. Un letto matrimoniale affiancato ai lati opposti da due comodini bassi, un lampadario  spiccante dal soffitto, un altro mobile nero e un grande armadio da quattro ante.

«Oh, piccola Chantel, non nasconderti da me, non devi temere nulla.» la voce di Jonathan Julliard le arrivò, seducente, alle orecchie tese cospargendole la spina dorsale di brividi. «So che ti sei rifugiata qui, da qualche parte, ed io ti troverò presto. Puoi starne certa.»

A quel punto aprì un'anta dell'armadio, ignorando la polvere insostenibile che vi era all'interno e s'impose di rimanere in silenzio chiusa in quello spazio ristretto.
Intanto, i passi si facevano a mano a mano meno distanti, sfiorando, invitati, la strada che conduceva alla porta della stanza in cui aveva trovato riparo.

«Andiamo, sono un uomo un po' vissuto per giocare a nascondino. Perché non fai la brava e vieni fuori? Ti assicuro che l'ultima cosa che è di mia intenzione è farti del male.» la sua voce tanto persuadente per un attimo la fece vacillare sulla possibilità di smascherarsi di propria iniziativa e venire allo scoperto, incapace di reggere quell'enorme pressione ancora a lungo. Si schiaffeggiò mentalmente per aver sfiorato un simile pensiero di resa, convinta che non avrebbe mai concesso una tale vittoria al suo nemico più acerrimo.
Ma i passi, ormai, erano troppo udibili alle sue orecchie.

«Io comprendo la tua nostalgia di casa ma, vedi tesoro, i tuoi genitori e i tuoi fratelli ti avevano rinchiusa in una bolla di cristallo, insfiorabile.» incominciò a toccare un tasto delicato, mentre s'addentrava nella stanza dal letto matrimoniale.

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