37. Il Demone

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Non appena Jahrien mise piede nel palazzo di Uthrag, accompagnato dalla sua squadra e dal contingente di Jadaran, realizzò che era stata una pessima idea.

Lo Stratega elfo avanzò nel salone, gli stivali ticchettarono sul marmo lucido del pavimento. La stanza pareva buia e vuota.

«Zerisha Ynahar!» gridò il mago. Il giovane sussultò e deglutì mentre l'eco riverberava e si amplificava tra le pareti e la volta. «Sa mirthé lyn shaillyr thorne

Jahrien prese un respiro profondo per cercare di scacciare l'angoscia. Non capiva così bene l'elfico da sapere cosa lo Stratega avesse intimato con quella sua voce stentorea, ma era certo si trattasse di una minaccia di qualche tipo.

Come faceva Jadaran a non sentire quella soffocante puzza di trappola?

Il Cavaliere si accorse che stava giocherellando con la striscia di cuoio arrotolata attorno all'impugnatura e si costrinse a smettere.

Quando l'eco della frase si spense, tornò il silenzio. Le uniche luci provenivano dalle sfere magiche che i maghi avevano acceso, e Jahrien vide chiaramente il disappunto e il disprezzo sul volto di Jadaran. Il cristallo al centro del suo diadema si era acceso e tracciava ombre affilate sul suo viso.

Il ragazzo dovette sforzarsi per non andare dall'Elfo e dirgli che dovevano andarsene subito. In fondo, lo Stratega si era offerto volontario per andare a stanare il Sacerdote dei Demoni con i suoi maghi e Jahrien non aveva potuto fare nulla per impedirglielo: era solo un ragazzo, per quanto Cavaliere Errante da quasi cinque anni, e per di più mezzosangue.

Storse appena la bocca. Dopo tutti quegli anni, ancora mal sopportava l'ostinazione degli Elfi nel credersi superiori a chiunque altro al di fuori della loro razza.

Peccato che era proprio quella presunzione ad averlo ficcato nel cuore di una trappola, e ciò che più lo infastidiva era il fatto che Jadaran non l'avrebbe minimamente ascoltato.

Strinse il pugno sull'elsa della spada.

«Mriyaldé rynna jolah!» gridò di nuovo Jadaran, infastidito. «Sa shaillyr thorne har my...»

«Arrivo, arrivo, Elfo» proruppe una voce dal fondo del salone, «smettila di blaterare! Per tutti gli dei, non ricordavo che la vostra lingua fosse così...»

«Fermo dove sei, verme» ringhiò Jadaran. Sia lui che i suoi maghi avevano evocato sfere infuocate attorno a entrambe le mani. «Mostrati!»

«Oh, io sono solo un miserabile umano, signor Elfo» echeggiò di nuovo la voce, questa volta con un tono di scherno. «Non conosco certo trucchetti come quelli

Jadaran sibilò un'imprecazione. Diede un secco ordine e ciascuno dei suoi maghi accese una sfera di luce e la fece librare nell'aria fino alla volta. La luce scivolava su una sala ornata di arazzi e stemmi dipinti a smalti vivaci e appesi alle due pareti, mentre, addossato a quella in fondo c'era un trono di marmo candido intagliato e, su di esso, sedeva un uomo vestito di nero, con un diadema luminoso sulla fronte celato sulle tempie dai lunghi capelli corvini.

«Vedete, sono qui per porgervi i saluti di...»

A un grido improvviso di Jadaran, le sfere infuocate sfrecciarono verso l'uomo seduto sul trono, solo per infrangersi contro una barriera che apparve all'improvviso e poi tornò invisibile.

«Oh, no, non si fa così» disse l'uomo, con il tono di chi rimprovera un bimbo capriccioso. Jadaran sibilò nella sua lingua in risposta. «Io vengo qui, in pace, per portarvi i saluti del mio Re, e voi cercate di uccidermi?» continuò imperterrito quello – Jahrien dedusse che si dovesse trattare di Tyris.

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