Capitolo 8

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-Sharon-

Dopo dieci orribili ore di viaggio sono arrivata a Londra. Durante tutto quel tempo in aereo ho visto per due volte lo stesso film, una vecchia commedia di Jim Carrey, fino a sapere alcune battute a memoria. C'era questa bambina dietro di me che continuava a prendere a calci il sedile, neanche fosse la sua peggiore nemesi, infine si è addormentata. Non posso dire lo stesso di me invece che, nonostante bramassi di cadere in un sonno profondo in modo da far passare più velocemente il tempo, non ci sono riuscita. Non appena quella bambina aveva terminato di darmi fastidio, un uomo accanto a me, forse d'affari dal momento che indossava un completo blu abbastanza formale, ha cominciato questo interminabile monologo, commentando ogni scena del film. Di certo si è divertito, almeno lui. Da aggiungere a tutti quei fastidi c'erano anche i miei pensieri e i sensi di colpa che non aiutavano affatto. Fortunatamente il viaggio in autobus è stato molto più rilassante. Ho dormito una scarsa ora, riuscendo a prendere sonno solo per il fatto che ero distrutta, l'altra sono rimasta sveglia. Almeno ho recuperato un po' di energia. E ora vago per le stradine deserte e buie di questa cittadina ignota. Accendo il cellulare: diverse chiamate perse di mia madre e più di venti da parte di Albert. Questo è decisamente strano: deve essere per forza successo qualcosa per aver cercato di contattarmi così tante volte. Non provo neanche a telefonargli, dal momento che già prima ho tentato di rintracciare Jackson per chiedergli dove abitasse e, non avendo credito, la mia speranza di trovare casa sua è andata in frantumi. Quindi sono ben due ore che sto girando a vuoto per cercarla. Sapevo di star dimenticando qualcosa prima di partire, infatti ho dato per scontato che avessi credito sufficiente anche per un messaggio. Forse mi sarei dovuta almeno informare prima riguardo alla via, così ora non starei camminando nell'oscurità, a mezzanotte, in una città che non conosco nemmeno. Inoltre, a quest'ora non troverò nessuno a cui chiedere informazioni. Se non avessi perso tutto quel tempo a Londra per trovare un autobus che portasse qui, a Winchester, ora sarebbe ancora giorno. Continuo a vagare nell'ombra, cercando di orientarmi. Giungo all'ennesimo incrocio e sbuffo, non sapendo quale delle tre strade prendere: se quella davanti a me, e quindi continuare sulla Bar End Road; quella a sinistra, la East Hill o quella a destra, la Wharf Hill. Decido infine di muovermi verso quest'ultima: la Bar End Road sembra fin troppo lunga, mentre la East Hill è inquietante e buia. Non vorrei imbattermi in qualche mostro, o maniaco.

Gli edifici, come del resto tutti quelli che ho visto finora, sono costruiti in mattoni bianchi o rossi e sono tutti adiacenti gli uni agli altri. La stradina sembra tranquilla, e quando dico tranquilla intendo che non c'è nessuno che potrebbe spuntare all'improvviso. Ed è una cosa positiva, sebbene non sia comunque serena per nulla. Prendo un respiro, mi aggiusto lo zaino sulle spalle e percorro la strada fino ad arrivare davanti a quello che deve essere un pub. L'edificio, che assomiglia più a una piccola casa a un piano, è interamente bianco e nello spazio tra il piano terra e il primo c'è scritto "BLACK BOY". Due luci esterne, simili ai famosi lampioni inglesi, si alternano alle tre finestre al primo piano; altre due si trovano al piano inferiore, all'estremità della porta nera al centro. Fuori è presente un ammasso di legna, appoggiato a un recinto nero che circonda l'intero pub. Non so dire se sia chiuso o meno: le luci esterne sono accese (e ne sono felice perché illuminano un po' la strada insieme ai lampioni), ma sembra non esserci nessuno dentro. Mi avvicino per controllare gli orari, scritti su una piccola lavagnetta al di sopra dei pezzi di legno. Mercoledì, ovvero oggi: da mezzogiorno alle undici di sera. Sospiro, sconsolata, e riprendo a camminare. Deve pur esserci qualcuno aperto da queste parti. Attraverso la strada, senza dare molta importanza all'improbabile arrivo di un'auto, dal momento che sembra una città fantasma, per andare a sedermi sulla sola panchina circondata da qualche albero nell'unica parte con un po' di verde. Prendo il cellulare dalla tasca e controllo l'ora. È inutile continuare a cercare qualcosa che non conosco. Sento il mio stomaco brontolare: avrei dovuto portarmi anche qualcosa da mangiare, o almeno avrei dovuto cambiare le banconote, ma comunque non c'è nessuno aperto. Mi guardo in giro, affranta. Ormai non so più neanche dove andare. Non è il caso di svegliare qualcuno, bussando alla sua porta, poiché non ho la certezza che conoscano Jackson e la sua famiglia. Mi levo lo zaino dalle spalle e lo poggio sull'estremità della panchina, poi ci poso la testa sopra, stendendomi. Ringrazio che non faccia freddo almeno, e che non piova, altrimenti la situazione sarebbe davvero critica.

Sharon: La Pietra Di BlarneyDove le storie prendono vita. Scoprilo ora