Capitolo 25

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Dopo quella mattina una strano stallo di cui non sapevo darmi pace si era venuto a creare nello scorrere perpetuo del tempo.
Un periodo di stallo ammantato da una moltitudine di incomprensioni, angoscia, buchi neri, punti di domanda ansiolitici, timori esasperati.
Sentivo di precipitare in un abisso di vita e di morta, ma senza mai vederne la fine, un possibile fondo vacuo in grado di azzittire, di porre un salvifico e definitivo rimedio, pareva non esserci.
Se c'era, io comunque non riuscivo a vederlo arrivare, non riuscivo mai a percepire il tanto atteso odore di pace del suo inizio, della sua fine.
Ero precipitata senza precipitare, mi stavo lentamente, inesorabilmente schiantando senza schiantarmi.
La sensazione paradossale era quella. La sensazione da infinito senza spazio, da morte senza rinascita, da rinascita senza speranza. Se tornavo a crescere e prosperare dopo questo la mia mente mi suggeriva che non sarebbe stato comunque più come prima, non sarebbe stato come io ero sempre stata abituata, con le protezioni di prima, con le difese di adesso.
Le sentivo sgretolarsi lentamente senza neanche poterlo impedire, senza neanche potermene accorgere davvero.
Il controllo di cui mi ero sempre circondata, che mi aveva fatta sempre sua e che di conseguenza io avevo fatto sempre mio, sembrava aver iniziato a corrodersi delle ingannevoli sembianze di un ossessivo, pretestuoso punto di domanda eterno. Mi sfuggiva il tempo con il suo scorrere perpetuo e inevitabile, mi sfuggiva lo spazio con la sua forza di gravità che non sentivo più gravitarmi intorno, dentro, addosso.
Mi stavo perdendo, in qualche modo austero e terrificante, mi stavo perdendo.
Per la prima volta senza sapere come ritrovarmi, senza sapere come riprendermi quello che avevo il procace sentore di aver smarrito, senza sapere come ricongiungermi alla strada. La mia strada.
Quella di casa, quella cintata e recintata di mura senza brecce intente a poterle insidiare, quella priva di qualsiasi forma di imprevisto indesiderato, di pericoli
nuovi e incomprensibili, di un flusso diverso del mio sangue a pomparmi vita nelle neve.
Diverso, accelerato, assuefatto ad uno sporco capace di contaminarne il suo altrimenti stato di immacolata redenzione.
Avevo domande, avevo inquisizioni dal sapore di condanne multiple a gravarmi sulla testa. Apparivano come tagliole affilate, apparivano come censure controverse. Volute, mai chieste, ma comunque esistenti, comunque impossibili da arginare nelle loro repressa tentazione di essere accolte, esaudite, assorbite.
Avevo le risposte senza saperlo, avevo le soluzioni e le assoluzioni senza saperlo. Le avevo senza volerle sfruttare realmente, le avevo e tutto quello a cui riuscivo a pensare era di nutrirmene come un assiderato dopo un inconsapevole coma prolungato, di nutrirmene come fossero la sola concessione che al momento potevo permettermi. Erano La tentazione più grande, erano il rifiuto che non avrei mai immaginato di poter sperimentare, di poter sentire scorrermi sotto la pelle.
Le avevo razionalmente ed era peggio, ed era meglio. Le avevo irrazionalmente e il loro flusso di distruzione deliberata, dilagante, guariva il mio animo protetto dal marcio con il tormento dispersivo di quella stessa distruzione. Leniva e progrediva, decresceva e aumentava, guariva senza ricucire, guariva per ferire di nuovo.

Tre giorni erano passati da quella prima colazione "coniugale" e il ciclo improduttivo non si era fermato, il fuoco non si era spento, fermamente impossibilitata come mi ero ritrovata anche solo ad attenuarlo, e la dannazione era proseguita statica. Intervalli di tempo, intervalli di forza, scosse vulcaniche che scendevano e salivano senza mai una vera e propria ragione apparente. Succedeva all'improvviso, succedeva in base al mio corpo, alle sue esigenze, in base ai percorsi frastornati della mia mente in travaglio. Nessuna certezza, nessun calcolo delle probabilità fattibile, nessuna previsione che potevo permettermi il sacro santo diritto di mettere in atto, di provare ad indovinare. Un sali e scendi frastagliato, senza un percorso fisso da seguire e non senza una contaminazione di incidenti a catena a deviarne il filo conduttore.
Tre giorni erano passati e nessuno aveva mai capito niente, tre giorni erano passati e io non ero riuscita a togliermi dalla bocca quel fiele amaro, quel calore tra le pieghe fradice del mio sesso sotto tortura, la pressione deliziosa e dolorosa del suo piede sul mio centro.
Non avevo dimentico, non ne ero stata in grado. A distanza di ore su ore, di notti su notti, l'insoddisfazione era solo che aumentata, non aveva fatto altro che quello.
Di pari passo con la mia amarezza incanalata, di pari passo con le palpitazioni insane della mia austera passione.
Non ero ancora riuscita a venirne fuori, a venirne a capo. Mi bloccavo, mi fermavo, il mio corpo aveva semplicemente cessato di rispondere nel suo usuale modo a qualsiasi altro stimolo o tocco che non fosse il suo.
Mi ero sentita paralizzata, mi ero sentita impotente. Mi sentivo vuota, mi sentivo persa.
Io me ne ricordavo come fosse successo appena qualche minuto fa, ogni parte e centimetro di me lo faceva, se lo ricordava, se lo sentiva scorrere addosso. E lei, lei la colpevole, lei la rovina sociale ed esistenziale, proprio lei magari non ci aveva più pensato neanche il secondo dopo che le sue dita avevano smesso di stuzzicarmi, neanche un secondo dopo che le nostre strade si erano momentaneamente divise per ritrovare quella succube briciola di sanità che puntualmente andava a farsi un giro quando si incrociavano.
Quel momentaneamente era presto diventato un definitivamente per tutti e tre i giorni trascorsi.
Per mio volere, per suo volere, per volere di entrambe.
Non avevo più preso parte a nessuna colazione, pranzo o cena da spettabile coppietta novella.
Di Linda non avevo più saputo niente, non avevo più voluto sapere niente. Non avevo chiesto, non avevo acconsentito alle continue suppliche di Mama Elsa di fare uno sforzo, di aprirmi con lei riguardo il mio improvviso comportamento di distacco totale, di mutismo incrollabile a volte e di scoppi di rabbia sorprendenti in altre occasioni in cui non erano nemmeno richiesti o minimamente necessari. Immotivati. Era così che erano sembrati agli occhi degli altri, agli occhi di tutti. Lo avevo visto nelle loro facce perplesse, nelle loro facce preoccupate e contornate da più punti apprensivi di domanda di quanti ne avessi avuti io a logorarmi i nervi e quegli ultimi brandelli di sopportazione rimasti.
Il mio intero cambiamento drastico era apparso così, immotivato e privo di alcun senso, di qualunque comprensibile e giusto significato. Come se qualcosa di "giusto" potesse davvero rientrarci dentro quella categoria che non osavo nemmeno prendere in considerazione, come se potesse anche solo avere una connotazione reale a decretarne la sua esistenza non esistente. La sua esistenza non esisteva, non esisteva e basta.
Per tutti non aveva avuto una logica, per me invece era stato tutto quello che avevo potuto fare, tutto quello con cui avevo potuto reagire.
Per sentire di avere ancora il controllo come prima, per sentire che io ero ancora io.
Potevo sentire ancora quell'alito, quel respiro di forza e consapevolezza, di autocontrollo e decenza, se lo evitavo, se me ne allontanavo. Potevo farmene galvanizzare la testa fino a darmi da sola l'indispensabile illusione che le mie membra le riconoscevo ancora come le stesse, che non erano cambiate, che avevano conservato la loro consistenza invalicata per fornirmi il tacito preludio che io ero ancora io.
Se mi mettevo un velo davanti alle palpebre sigillate, davanti alle paure labili, se fingevo di non sentire altro che non fosse il ritmo accelerato del mio corpo pregno a rimbombarmi ritmicamente all'interno, riuscivo ancora a riconoscermi. Per poco, per tanto, anche solo per un soffio di pace, io riuscivo ancora a riconoscermi.
Se evitavo Linda, se evitavo tutte le altre mille tentazioni circostanti, potevo illudermi che i miei sensi non erano cambiati, che non si erano incrinati come parevano aver fatto, che non erano andati incontro alla semi tragedia preconfezionata che sembrava averli accerchiati per intorpidirli.
Potevo fingere che le solite reazioni che usualmente sperimentavo, nel loro piccolo, non avevano smesso di conservare il loro efficace funzionamento. Un processo naturale che prima di ora non aveva mai mancato di deliziarmi, che prima di ora non era mai stato scalfito o intaccato.
Era a causa sua se quelle tentazioni, quei piccoli piaceri fisici e fino a tre giorni fa sempre presenti si erano lentamente trasformati in dei timori da eludere, in dei veri e propri terrori da cui fuggire al primo segno, alla prima svenevole avvisaglia.
Se gli andavo incontro, se me ne lasciavo ammaliare con l'inevitabile risultato di farmi schiacciare da altre prove possibilmente fallimentari, le certezze che più non desideravo, che più con ogni fibra del mio vero essere rigettavo senza pietà, non avrebbero fatto altro che diventare ancora più certe.
Il terrore sarebbe aumentato in maniera esponenziale e ci avrebbe impiegato meno di un soffio a trascinarsi al seguito la mia perdizione, il mio senso di un vuoto colmo, il mio affondare in un mare in tempesta, il mio dilagare in una vacua precipitazione con meta tutta da stabilire.
Ci avrebbe messo così poco a decretare definitivamente la mia dipartita e la definitiva decapitazione di tutto quello che avevo sempre creduto fermamente di essere e che sarei sempre stata, che proprio non potevo permettermelo. No, proprio non potevo.
Era un rischio troppo grosso, il primo rischio in assoluto che non pensavo minimamente a rincorrere per la sua adrenalina nelle mie vene, per il mio eterno amore consunto per le sfide e le loro succose vittorie. Il primo rischio in assoluto che non stavo amando, di cui ne temevo davvero gli esiti incerti e la portata potenzialmente ridicola nella sua semplice accezione.
Era a causa sua se quelle tentazioni si erano trasfigurate in tormenti da rifuggire come la peste per le probabili, ulteriori conferme indesiderate con cui potevano appestarmi un altra volta, era a causa sua se le mie tante amanti da fonti abituali di carnale desiderio e piacere avevano ora assunto, nella mia testa e in ogni particella del mio distacco involontario, le scostanti connotazioni di fonti di implacabile paranoia mentale e fisica. Era tutto a causa sua, tutto a causa di Linda Vargas.
E il ritrovarmi ad ammetterlo a me stessa, a prenderne piena coscienza, era un male perfino peggiore del non farlo, del continuare a brancolare totalmente indifesa nel buio più pesto. Le difese mi mancavano anche con la fioca illuminazione della luce della fottuta consapevolezza. Se la consapevolezza aveva quei particolari risvolti di dannazione la sua luce non poteva certo essere una di quelle illuminanti, accecanti nel modo più positivo e pratico del termine stesso per una verità nascosta che ti si apriva finalmente davanti agli occhi, che ti accecava solo per poi restituirti una vista migliore, nuova, liberatoria.
Se la consapevolezza aveva quei risvolti di dannazione, se significa la mia dannazione stessa, a me non poteva fare altro che accecarmi per rendermi un anima in pena eterna.
Non mi avrebbe restituito una vista nuova o migliore, non mi avrebbe fornito una gradita pace.
Mi avrebbe solo tolto gli occhi in maniera permanente, la forza di una visione incontaminata, il controllo di una visione priva di solchi o crepe nella sua inalterata alterazione.
Mi avrebbe solo che punito, mi avrebbe solo che gravato addosso con un marchio emotivo ancora più invasivo di quello prettamente sociale della ignobile fede al mio dito.
Non riuscivo neanche più a guardarle. Le mie amanti non le guardavo più, non rispondevo più ai loro continui richiami, alle loro occhiate inequivocabili, alle loro moine da esperto intrattenimento sotto coperta che da me chiedeva solo di essere intrattenuto lui stesso. Le schivavo, le temevo, mi isolavo. Mi ero completamente isolata. Il mio pane quotidiano era diventato il mio cianuro, ciò che prima era la sola cosa a saziarmi davvero, saziarmi fino a farmi sentire finalmente viva, ora era diventata la seconda cosa a dilaniarmi fino a farmi sentire un inetta malata terminale sul suo bianco letto di morte già cosparso di rose spinate in diretta previsione del tanto fatidico ultimo respiro prima di espirare una volta e per tutte. Il mio isolamento totale mi proteggeva da quella infermità mentale e psico fisica che mi attanagliava le ossa con i suoi lunghi artigli in ogni fottuta  occasione in cui avevo sentito la loro crescente voglia viziosa scivolarmi addosso. Un silenzio prolungato di cui non mi era mai capitato di farmi schiavizzare era diventato padrone indefesso a cui obbedivo senza protestare e sempre e solo per una sporca convenienza. Il distacco auto imposto era diventato il mio unico amico, la mia patina difensiva permeata di negligenza. Una patina tanto sottile tanto ugualmente indispensabile come una medicina da assumere quotidianamente, ogni dannato giorno e agli stessi dannati orari.
Non si erano rassegnate le mie amanti, mai. Proprio mai. neanche per un'agognato attimo avevano lasciato la presa per rendermi il compito più facile anche solo di una virgola, neanche per un'agognato, salutare attimo si erano rassegnate ad accettare quel mortificante rifiuto che gli avevo ripetutamente rifilato e che prima non mi era mai passato nemmeno per l'anticamera del cervello di rifilargli.
Quando non mi era stato possibile evitare di restarmene racchiusa al sicuro tra le caustiche mura protettive della mia stanza o del mio ufficio, in un precario e religioso mutismo, la loro imbarazzante insistenza mi aveva lentamente bombardato i timpani fino a farmeli letteralmente scoppiare, fino a rendermi una sorda felice di non sentire se quello che avrei sentito di me, intorno a me, mi avrebbe anche resa una donna con un anima che non voleva, con un cuore che non gli apparteneva. Uno più marcio del precedente, uno più guasto e malato del precedente nel suo spregiudicato battito da tachicardia discontinua.
Stabile ma discontinua, discontinua ma ininterrotta.
Quando mi ero ritrovata costretta ad uscire fuori dalle mio prolifico bozzo di cinta personalizzate per delle evenienze ineluttabili a cui adempiere e le avevo inevitabilmente incontrate ad attendermi, pronte, affamate, sul mio cammino, mi era stato fermamente impossibile non notare su larga scala il cruciale punto cardine di tutta la faccenda, della mia brulicante sensazione di impotenza latente e della mia succube finzione nella speranza di una illusione di cui potermi cibare.
Un illusione che iniziavo a sentire sempre più illusa, che mi stava sempre più scivolando via dalla mani. Anche lei voleva lasciarmi da sola ora, voleva abbandonarmi, voleva fottermi. Come tutto il resto, come tutti. Nessuno escluso.
Se anche la mia finzione mi schiacciava con il suo essere semplicemente quello che era: una spietata finta del cazzo, cosa mi restava? Se mi rendeva anche lei una vittima in agonia del suo stesso gioco allo sterminio del controllo perso, di quella parvenza di controllo che mi imponevo ancora di avere, che fremevo ancora per avere, cosa mi restava? Cosa cazzo mi restava?.
Più le ore si erano trascinate tra di loro e più quei momenti inevitabili di incontro con le mie amanti, con alcune di loro, avevano amplificato i deleteri effetti della loro supplice agonia sul mio laconico essere diventata irriconoscibile, più le ore si erano trascinate tra di loro e più la loro scalpitante astinenza nei miei confronti e per la mia bocca si era resa ancora più manifesta e dolorosa negli ultimi episodi.
Le avevo sentite bisbigliare tra di loro con tono piatto e spazientito sul perché negli ultimi due giorni non avessi richiesto la presenza di nessuna di loro la notte o durante il giorno, nella mia stanza, o dovunque altro mi andasse in giro per la tenuta. Le avevo sentite lamentarsene con tristezza. Anche se sapevo che farlo non avrebbe comportato altro che un ennesimo coltello piantato nella schiena, un altra sfilza di frustate brucianti sui segni ancora freschi e mai del tutto guariti, ascoltare nei loro bisbigli trattenuti quei brevi scorci di lamentosa insofferenza mi era stato pressoché impossibile da non fare. Prima la loro fagocitata impazienza di avermi mi riempiva, ora, ora non faceva altro che svuotarmi goccia dopo goccia, sguardo dopo sguardo, corpo dopo corpo che mi si presentava davanti desideroso di essere soddisfatto.
Prima così viva, ora così morta.

Turbid Obsession (Camren)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora