Capitolo 26 (seconda parte)

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Le dita ticchettavano sul duro legno della scrivania, le gambe scoperte e accavallate si muovevano in un meccanico tic nervoso che manifestava a pieno il non tanto placido inizio di esaurimento che aveva preso a martellarmi con insistenza le meningi dal momento in cui avevo poggiato con grazia succinta le mie preziose terga sulla mia agevole poltrona da postazione di comando. Nel richiamare all'ordine Linda ero riuscita a forzare la mia voce per farla uscire graffiante e indifferente come da prassi, con quella vena di sarcasmo che appartiene di diritto ad una strenua regola primaria da rispettare. Segretamente andavo fiera che il mio impegno siderale per rispettarla avesse finito con il dare i suoi dolci frutti, altrettanto segretamente mi vergognavo della mia incudine composta dal mio disprezzo personale per il dovermi ritrovare complice di un entusiasmo umiliante per il superamento di un ostacolo cui non avevo mai dovuto imbrattarmi prima. Costretta a sforzarmi a fatica per una briciola di miseria, un qualcosa che avrebbe dovuto continuare a risultarmi piacevolmente insignificante e senza l'implicazione di qualsiasi tipo di incertezza o difficoltà alcuna. La consulenza analitica pre cena di affari, se così si poteva definire questa congegnale improvvisata di incontro anticipato, non era prevista nel e dal programma stipato con largo anticipo dalla solita maniaca del perfezionismo  che era sempre stata Mama Elsa. Non ci rientrava, non ne faceva parte.
Era stata una mia premurosa accortezza pensata negli ultimi secondi e spinta ad una nascita prematura da due motivi ben specifici. Ero sicura del fatto che Mama Elsa non avesse avuto la stessa asfissiante insistenza nel redarguirmi sulle misure cautelari e nei doverosi limiti entro cui doveva attenermi anche con mia "moglie". Probabilmente con lei non ci si era neanche avvicinata con quel tipo di esasperazione latente che io avevo imparato, a mio scapito, a conoscere in una maniera tanto amplificata. Specie ora che la mia suddetta "moglie" aveva fatto la sua esemplare comparsa per mettermi due graziosi catenacci sia sociali che non a bloccarmi fermamente i polsi. Catene per le mani, nastro adesivo per la bocca, fumo negli occhi e nei polmoni per inquinarmi il respiro.
Sicuramente a lei non aveva riempito la testa con le classiche chiacchiere banali su un comportamento civile e il rispetto di un buon galateo, illusa dalla finta grazia e la finta buona fede da samaritana della situazione che Linda gli aveva gettato addosso come nebbia fitta. Molto probabilmente con Lei si era solo limitata a fargli riferire le ordinarie indicazioni prestabilite.
Salvo poi varianti sul tema del caso come quella che io avevo appena deciso di mettere in atto per il mio personale comodo.
Non sussistevano regole da seguire nella mia logica, programmi da rispettare. Qualora ne trovavo, qualora qualcuno provava ad impormeli era solo per il gusto di farmeli trasgredire. Le regole andavo violate, i limiti superati.
A me si erano già assicurati di indirizzarmi per questa sera ma non di non farmi deragliare, consapevoli che sarebbe stato inutile, sperando che il mio nuovo status sociale mi avrebbe indotto a contenermi. Con Linda ci avrei pensato io ad indirizzarla nel modo giusto e senza concedergli lo sfogo di cedere all'impulso liberatorio di trasgredire. Se volevo farlo io non vedevo perché non avrebbe dovuto o voluto farlo anche lei nella sue maschere di cera, nella predilezione che aveva dimostrato in un rifiuto cardine nel conformarsi a quello che la normale prassi richiede. Una predilezione che assomigliava tanto alla mia.
Non avevo paura di un suo velato tentativo di umiliarmi davanti ad un possibile acquirente dalle uova d'oro, non avevo paura della sua natura insubordinata che avrebbe potuto portarla a correre volentieri un tale rischio pur di sporcare pubblicamente il mio nome anche solo di un centesimo di spazio.
Ma temevo il contrario, temevo la passione con cui avrebbe potuto provarci, temevo me stessa dopo che una ipotesi del genere sarebbe potuta divenire una inossidabile certezza.

Non aveva risposto al mio "cambio di programma" dell'ultimo secondo, non una parola, non una replica. Niente che mi confermasse che si sarebbe presentata, niente che mi confermasse il diretto contrario. Non nell'immediato, almeno.
Nessun segnale, né vocale né fisico. Non che a me fosse minimamente importato di aspettarlo, nel caso in cui fosse mai arrivato, nel caso in cui ci sarebbe mai stato. Non mi ero soffermata a perdere ulteriore tempo ad attendere dei probabili insulti, un assenso di qualunque forma seguito dai dei probabili insulti, o il lancio di qualche oggetto possibilmente contundente che mi veniva scagliato addosso con il muro protettivo della porta a farmi da piacevole scudo. E anche quello sarebbe stato, con ogni probabilità del caso, sempre seguito da una melodica litania di dolci insulti.
Avevo parlato, avevo detto quello che dovevo, mi ero voltata senza preoccuparmi del seguito scontato, e me ne ero andata senza guardarmi indietro diretta e decisa verso la posizione che ricoprivo ora.
Ero sicura che si sarebbe presentata, che non avrebbe mancato al mio invito non facoltativo di un una posticipata chiacchierata in solitaria. In una stanza chiusa, in privato, senza nessuno a fare da interferenza, con la mia vera faccia e con la sua vera faccia. Le lancette sul pendolo antico, gran pezzo di antiquariato, scorrevano senza incepparsi davanti al vigile e costante esame dei miei occhi, la portata di pazienza che ero disposta generalmente a sopportare cominciava inevitabilmente ad avvicinarsi al suo colmo. Il massimo del colmo che potevo tollerare di solito e il minimo che non avrei mai voluto dover tollerare per lei in primis, soprattuto per lei e le sue teatrali entrate in scene da commediante nata. Probabilmente lo stava facendo apposta a tenermi sulle spine, solo per provarmi quel tanto che bastava prima di impuntare i suoi tacchi nuovi di zecca, generoso regalo immotivatamente concessogli da Mama Elsa, sulla morbida moquette del mio ufficio per calpestare tutto il calpestabile. Ogni metro quadro. Ci scommettevo che un intero guardaroba e una scarpiera muovi e di lusso potevano fornire anche di questi effetti illusori, di un certo manierismo spregiudicato volgarmente arricchito da mille moine.
La mia pazienza andava a decrescere in relazione alla mia impazienza che, per semplice par condicio, andava indirettamente a crescere con esponenziale irritazione in concomitanza con il ticchettio costante delle lancette. Come loro, la mia impazienza non accennava a incepparsi.
Tutte le volte che mi ritrovavo a constatare lo scorrere del tempo sul quadrante tirato a lucido di quel pendolo non potevo fare a meno di pensare a quanto fosse oggettivamente brutto per essere un così tanto ricercato pezzo di antiquariato dal prezzo stimato notevolmente alto. E alto lo era stato davvero, nonostante secondo Mama si fosse trattato in realtà di un vero e proprio affare. A suo dire, impossibile da non cogliere al volo malgrado le sue fattezze da tazza con dei numeri storti scarabocchiati sopra che, a mio di dire, non sarebbero dovuti valere neanche un centesimo. Lo aveva acquistato all'asta annuale un paio di anni fa. quando mi aveva raccontato, con enfasi e voce stridula per l'eccitazione, che all'asta nessuno dei nostri spettabili soci dell'alta società aveva alzato la mano per fare la sua offerta, nemmeno nel momento in cui il prezzo iniziale era andato drasticamente al ribasso, non avevo fatto alcuna fatica a crederci. Nessuna fatica a credere che solo Mama avesse potuto avere il coraggio di alzare la mano alle battute finali per compare una tale "delizia" decorativa ad un "tale" prezzo. Lo aveva piazzato direttamente sulla scrivania del mio ufficio sostenendo che era semplicemente perfetto per dare quel tocco di classe e di antico in contrasto con quella che era notoriamente una delle stanze maggiormente moderne della tenuta, oltre ad essere, se si escludeva la mia camera da letto e più precisamente il mio letto stesso, il luogo dove trascorrevo la maggior parte del mio tempo tra calcoli, sigari, whisky e incontri lavorativi dai vari aspetti burocratici con nuovi e vecchi acquirenti. il mio letto era stato il luogo portatore di peccati viziosi dove tendenzialmente passavo con dovizia molte delle mie ore e, ancora di più, delle mie scalpitanti energie. Parlarne al passato, dagli ultimi tre giorni a questa parte, era praticamente d'obbligo. Per quanto facesse tremendamente male ammetterlo, lo era stato, al passato. Un male sia fisico che mentale. Il mio letto era ultimamente cambiato dal sacro harem dei piaceri  alla triste incudine della mia nostalgica mortificazione. Inutile ricordarne i motivi, o meglio, il motivo per cui era subentrata questa deleteria trasformazione di connotati. Me lo sarei potuta ritrovate davanti quel motivo pruriginoso a momenti, tra appena qualche secondo, e se tentare da sola un inconsapevole suicidio mentale e dei sensi pensandoci sopra non era stato consigliabile anche in altre circostanze apparentemente tranquille e in sordina, figurarsi quanto poteva esserlo ora in vista della precoce rimpatriata in allegria.
La mia camera era rimasta uno dei luoghi primari, se non il primario dal momento in cui mi ci ero praticamente barricata dentro, al sicuro, in questi lunghi tre giorni trascorsi, il mio talamo in precedenza intoccabile e prezioso, invece, in controtendenza a quelli che ormai parevano essere solo i "bei tempi andanti" non assorbiva il calore di un corpo caldo da spremere e di un orgasmo succoso da provocare da quello che era rapidamente diventato un tempo di astinenza immemore. Il più lungo e difficile da concepire di sempre, intento a non sgualcirne le candide lenzuola e a non macchiarne più la purezza.

Turbid Obsession (Camren)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora