Capitolo 14

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La fede al dito pesava come un macigno incessante sulle spalle, già stanche e indolenzite. Profondamente stanche e indolenzite. Ero ufficialmente sposata, non più libera, incatenata mestamente nei meandri della mia più ostica e temuta prigionia da solo un ora all'incirca, e già a me sembravano passati tristi, lunghi e inesorabili anni.
L'abitacolo della spaziosa carrozza era intriso di una tensione logorante, snervante, proprio come in quel torrido primo viaggio dal porto fino alla tenuta. Cambiava il mezzo di trasporto, non cambiava l'angusta e turbolenta atmosfera. Come una diretta e inevitabile ripetizione perpetua, a catena.
Lo spazio tra i nostri corpi era vasto e capiente, lei relegata aggraziatamente nella sua estremità più diretta e io nella mia.
Non che questo paresse avere la minima importanza. Non importava la distanza che intercedeva tra le nostre carni, le nostre pelli. Non importava la mancanza totale di contatto per fomentare e incenerire i miei istinti, il mio sangue bollente, le mie voglie immorali crescenti.
L'elettricità veemente pareva scorrere e infuriare ugualmente, senza ritegno, senza recupero, senza possibilità di repressione totale o completo controllo.

I pensieri contorti vorticavano insistentemente in un vortice di immagini e sensazioni destabilizzanti, sensazioni nuove e confuse, nella mia mente che si ripudiava categoricamente di cadere in ginocchio davanti a questo dozzinale conformismo, di soccombere impotente dinnanzi a quelle mediocri e improponibili promesse. Promesse incancellabili, promesse eterne, promesse che mi avrebbero rovinato, che lo stavano già facendo, che lo avevano già fatto.

Il cocchiere procedeva lentamente, a passo cadenzato. Un ulteriore punizione divina da aggiungere alla lunga sfilza che già mi faceva ritorcere violentemente l'intestino nello stomaco dalla rabbia, dalla vergogna. Credevo di provare, nonostante tutto, almeno un minimo moto di orgoglio, di pace interiore, di dovuto disimpegno, nei confronti di mio padre. Lo avevo creduto, ci avevo ardentemente sperato e non era stato così. Mio padre, il suo pensiero confortante. Quello stesso pensiero, l'unico e il solo, in grado di consolarmi, di darmi la forza necessaria, di riuscire a farmi piegare senza ritegno, prima che tutto venisse inderogabilmente fatto e concluso. Prima di rinunciare alla sublime e inattaccabile ufficiosità della mia libertà davanti a tutti. Inattaccabile fino a poco prima, inesistente agli occhi degli altri da ora.
Non che questo mi avrebbe cambiato, non che questo la rendesse inesistente anche agli occhi miei.

La fede in oro bianco brillava sotto l'intensità, ancora calda e prepotente, dell'afoso sole di Cuba,
Alto nel cielo.
Il cielo continuava ad essere limpido, a prendersi bellamente gioco di me, della mia pena glaciale, della mia rabbia bollente, della mia indignazione cocente. Nemmeno una singola nuvola minacciava di fare la sua comparsa, nemmeno un misero e, al momento gratificante, grigiore su quella distesa incontaminata di cielo sereno e terso.
Al mio interno si scatenava indomita una pioggia scrosciante, una nebbia accecante, un temporale torrenziale, un temporale fervido e assordante.
Il nero più profondo mi offuscava la mente e l'oscurità di quel nero dilagante mi inquietava tortuosamente, mi privava della ragione più essenziale, mi tormentava, mi inquietava, mi ottenebrava voracemente.
La fede brillava, la fede pesava sulla mia mano, la fede mi rovinava.
Il ricordo, vivido più che mai, di quello schiaffo umiliante, di quello schiaffo degradante e colmo di implacabile disprezzo si ripeteva nella mia testa con la stessa efficacia, la stessa perpetua continuità con cui lo faceva la realtà persistente di quel matrimonio, del mio matrimonio. Con cui lo faceva il significato radicato, profondo e schiacciante che quel nocivo scambio di costrittive e velenose promesse racchiudevano, sordidamente, in sé.
Su quell'altare, in quel momento, credevo di non farcela. Il panico mi dilaniava, l'ossigeno era assente dai polmoni, il cuore pulsava a intermittenza, il terrore radicato nelle mie membra sprigionava un ansia paralizzante, una paura disarmante.
Avevo creduto di poter impazzire del tutto, avevo creduto di poter morire.

Turbid Obsession (Camren)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora