Capitolo 30 (prima parte)

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Mi sentivo le palpebre pesanti come se fossi nel bel mezzo di una febbre a quaranta lunga giorni, che era durata per giorni e che ancora durava. Come se ad essere stata drogata con della morfina per cavalli ero sta io e non lei.
mi sentivo spossata e con i muscoli indolenziti come se mi fosse passato sopra un intero branco di elefanti, come se legata sempre nella stessa posizione su quella sedia ci ero stata io e non lei. Non Camila.

Dovevano essere degli effetti reiterati di come si era anestetizzato il mio cervello dopo quel momento, dopo quel maledetto ritratto.

Gli occhi si rifiutavano di chiudersi, di lasciarsi andare al buio lenitivo presente nella mia stanza, il mio corpo sembrava essere materialmente incapace di addormentarsi per darmi un soffio di pace da quel pensiero infestante, coercitivo, da quello che le mie mani avevano in realtà creato con quel pennello, dal ricordo diventato onnipresente di che cosa avevo fatto alla fine con quei colori, a cosa, consapevolmente e inconsapevolmente, avevo dato vita su quella tela.

Era stato così insensato e sensato al contempo. Mi era parso giusto e mi era parso sbagliato, mi aveva fatto sentire sia viva che morta. Come forse non lo ero mai stata, come forse non avevo mai sentito entrambi i poli opposti insieme.

Una volta tanto mi era sembrato che avevano combaciato, una volta tanto mi era sembrato che avevano viaggiato sulla stessa lunghezza. Quasi del tutto in accordo reciproco, quasi a braccetto tra di loro.

La mia mente comandava i miei arti, stabiliva il proseguo oscuro del loro tormento e la mancanza della loro pace perché lei stessa, la mia mente stessa era comandata dalla disgrazia di quel pensiero, del suo ricordo vivido.

La mia mente faticava come non aveva mai fatto, la mia mente era rimasta labile e ovattata dal quel maledetto momento in poi.

Era stato l'inizio senza più una fine. Era stato quell'inizio che non mi aspettavo, che mai mi sarei aspettata.

Flashback on

Quella sarebbe stata la sua punizione vera. Il suo corpo che veniva numerato, il suo piacere caldo e gocciolante, dovuto interamente a me, alle mie attenzioni, che veniva apostrofato e circoscritto con una sola etichetta appiccicata sopra: con l'etichetta dai risvolti umilianti che recitava a gran voce "mia sgualdrina come tutte le altre". Diretto e conciso. Impossibile sbagliarsi, impossibile da fraintendere.
Niente di più e molto di meno.
Molto, molto di meno.

Il mio sfavillante lato narcisista già si gonfiava alla prospettiva, già straripava di gioia esclusiva per quanto sapeva gli avrebbe fatto male, per quanto l'avrebbe punita e colpita nel profondo della sua anima, del suo orgoglio.
Io ero felice, semplicemente felice, per quello che, anche se con la forza, avrei finito per ottenere: lei attaccata al mio muro da collezione, lei, proprio lei, in bella mostra dove non avrebbe mai creduto di poter essere.
Esattamente Al pari di tutte le altre già presenti che tanto disprezzava. Al pari, se non peggio, se non addirittura in una posizione inferiore.

Quello che avrei ritratto di lei, quello che avrebbe significato e che ci avrei inciso sopra in maniera permanente, era tutto rispetto ai giochetti sadici che gli avevo inflitto da un punto di vista fisico.
Quello che stavo per fare psicologicamente alla sua testa era tutto, e quello che avevo fisicamente fatto al suo corpo era niente in confronto. Lo sarebbe stato niente a confronto, lo sarebbe diventato.
Lo sapevo io e lo sapeva molto bene anche lei.
Glie lo leggevo negli occhi, lo potevo scorgere dai pugnali di odio vivo nel suo sguardo cupo come la morte.
Non erano mai stati così tanti quei pugnali e non gli avevo mai visto prima una tale intensità nel lanciarmeli metaforicamente dritti in faccia.

Turbid Obsession (Camren)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora