Camila, gelosia, bugie travestite, bugie che sapevo avrei trovato nascoste, frasi sconnesse ma di un significato segretamente prorompente, con un senso dai contorni altamente disturbati ma cristallini nella mia mente che aveva iniziato ad arrovellarsi, a percepire la puzza inconfondibile del marcio dai primi piccoli segnali incostanti e appena accennati. La puzza acida di marcio che lei aveva attivato nel preciso istante in cui mi era entrata bene e tutta nelle narici una cascata gelida di ghiaccio nelle vene.
Rabbia, la mia e la loro, possesso al suo stato primitivo e puro, il mio e il suo, la mano di lui che scivolava verso quella di lei, la mano di lei che respingeva bruscamente quella di lui, con stizza. Le mani, le loro. E poi ancora, di nuovo, ancora e ancora quel nome: Camila. Vellutato, sconosciuto alle mie orecchie tanto quanto famigliare per quanto era sembrato al mio apparato uditivo giusto, semplicemente giusto e riconoscibile. Più di quello che si era attribuita e che io, di conseguenza, gli avevo attribuito, più di qualsiasi altro avessi potuto sentire uscire dalla bocca di lui e più di qualsiasi altro mi sarebbe potuto venire in mente nelle fasi direttamente successive alla scena solitaria e impagabile cui avevo assistito, che avevo fatto in modo si potesse venire a creare per poterci assistere personalmente con un ottimo posto in prima fila. Avevo visto tutto, seguito ogni gesto e ogni movimento di complice fastidio da amorevole quadretto da coppietta esclusiva in procinto di esibirsi in un angusto siparietto, finto tanto quanto loro, fatto di battibecchi dissipati e amare avvisaglie amorose. Amare per quanto erano state sdolcinate, per quanto mi avevano disgustato gli occhi aizzati dalle circostanze che avevo trovato, che mi ero immaginata avrei trovato ad attendermi una volta lasciati i due a giocare da soli ma che, comunque, non avevano mancato di farmi ardere nelle ossa per la certezza che poi quelle circostanze si erano rivelate essere. Con i sospetti che, puntuali e precisi, erano diventati attimo dopo attimo, secondo dopo secondo, con quello scenario irriverente davanti esattamente quello che avevo sospettato che fossero: una magistrale, telecomandata e indefessa presa per il culo.
Il pensiero che mi era balenato da subito che non solo si conoscevano bene i signori ma che ci fosse qualcosa di vivo, di ancora vivo e vegeto, qualcosa di losco ed equivoco e presente, si era scambiato i connotati da pensiero dubbioso alle luci abbaglianti della ribalta. Uno spettacolo illuminante che non sarebbe mai arrivato a fare da debita cornice al suo insieme, che non sarebbe mai giunto ad aprirmi la mente di un crescente e variopinto color cremisi se avessero avuto la consapevolezza di avere un pubblico attento e che il loro pubblico attento altri non era che me, io come unica spettatrice al valzer delle loro scadenti finzioni uscite inconsapevolmente allo scoperto.
Avevo visto tutto, ma in controtendenza non mi era stato possibile sentire abbastanza. Solo qualche sporadico passaggio, qualche sporadica parola. La distanza dal passaggio ad arco cui mi ero appostata a spiare e origliare rispetto alla posizione distanziata del tavolo non mi aveva permesso di andare oltre come avrei voluto, non mi aveva permesso di seguire e registrare il breve ma intero discorso fedifrago che si erano scambiati. La buona angolazione mi aveva fatto vedere con un posto di tutto merito, ma il vasto spazio della sala, i loro toni di voce mantenuti bassi per tutto il tempo e il rumore continuo del vino a fare da interferenza involontaria che Linda non aveva mancato di versarsi di continuo fini a riempirsi il calice al suo orlo con un fare quasi meccanico e incosciente, avevano ammutolito e deviato anche quei pochi stralci di conversazione che erano riusciti ad arrivarmi.
Solo un fattore, solo quel nome mai sentito prima mi era nitido e cristallino, e da quando lo aveva fatto pareva aver attecchito le sue radici calcificate nella mia ossessione, era rimbombato come una litania sorda nelle mie meningi e il suo suono non aveva voluto saperne di abbandonarmi per lasciarmi scivolare in una quiete che avevo fatto finta di avere ma che non non mi era più appartenuta a seguito di quanto visto, a seguito di quanto scoperto nel concreto. Non più supposizioni ma dati di fatto. Incontrovertibili.Camila, Camila, Camila. No Linda, niente Linda.
Volevo avere modo di sapere quello che non avevo avuto modo di sapere con quel mio allontanamento, volevo sentirmi dire quello che non avevo avuto modo di sentire, volevo sentirmelo dire da lei. In faccia, guardandomi dritto negli occhi. Volevo quel suo coraggio per poi solo averne in cambio la sua totale resa e la sua totale umiliazione per me, davanti a me. Via le maschere, via le sue di maschere. Avrei dovuto aspettare, avrei dovuto essere lungimirante e paziente per fare entrare il topo ignaro nella sua trappola da solo, ma non ne sarei stata in grado con la fissazione veemente che mi si era rivoltata contro davanti al fatto palese che avesse anche solo potuto pensare di fregarmi o di poterci riuscire. Da quando aveva iniziato a credere di poterlo fare? Da quando era il suo obbiettivo oltre a quello, etichettato e decretato ancora prima di varcare quella chiesa, di strapparmi la vita dalle mani per ridurla in un ammasso di deprecabili convenzioni sociali? In cosa consisteva realmente e nel totale quel suo obbiettivo folle e insensato? Non avevo idea di dove voleva arrivare, di dove voleva andare a parare. Aveva finto di non conoscere il colonnello, di non averlo mai visto prima, entrambi avevano vestito i panni dei perfetti estranei. Entrambi ci avevano provato. La rabbia per il tentativo sfacciato di prendermi per il culo, il bisogno impellente di scavare nel profondo per andare oltre, per sdoganare tutti gli altarini del caso, erano stati talmente predominanti da farmi agire con la sola spinta motrice del mio istinto punto nel vivo. Contrariamente a quanto mi ero ripromessa, contrariamente a quello che avrei dovuto fare. Nessuna lungimiranza e nessuna pazienza come nel caso del mio allontanamento durante la cena al momento opportuno, niente di quello cui avrei dovuto continuare ad attenermi era rientrato in quello che poi mi era stato inevitabile spingermi a fare.
Le loro mani che per poco, per un soffio millimetrico di fiato, non si erano sfiorate, toccate, unite, avevano cancellato ogni sfumatura di godimento per il martirio di Linda mentre la costringevo inerme a sopportare tutti gli scambi languidi e subliminali proposti a Carlos e ricevuti da lui, tutte le moine svenevoli attuate apposta sia per colpire al fianco lei che per fare un eccitante piacere personale a me stessa. Il godimento era stato rimpiazzato da un istantaneo astio e un bisogno mentale e fisico ancora maggiore di portarla ad un crollo pubblico e in bella mostra. Ma non era successo, Linda o, a quel punto, Camila, che dir si voglia, si era trattenuta attenendosi a fare quello che poi gli avevo visto fare per tutta la serata e, inizialmente, con un grande piacere egoistico: ottenebrarsi il cervello con un litro e mezzo abbondante di vino ingurgitato in solitaria.
Mi ero ritrovata a dovermi trattenere dal ridere di cuore quando avevo visto sfilarmi davanti agli occhi quella sfilza di bicchieri prima pieni e poi vuoti in un battito di ciglia come tanti piccoli burattini che invece di essere comandati dal loro burattinaio erano loro a comandare lui. questo fino al momento in cui non avevo assistito al loro reale scambio di intenti e dimostrazione veritiera di intima conoscenza. Successivamente a quello e a come mi aveva fatta sentire, una volta ripreso il mio posto al tavolo, il suo poter fare un confortevole affidamento all'alcol per alleviarsi i nervi tesi come una corda di violino non ero riuscita a definirlo come altro che un fastidio aggiuntivo, un intralcio supplementare al mio volerla vedere crollare. Se non avessi dato adito al formarsi di strane idea e di una decisione di poco buon gusto e non convenzionalmente ospitale, avrei dato ordine perentorio di liberare il tavolo pieno dalla fragrante compagnia di ogni bottiglia ancora presente o minimamente integra.
Il picco di astio raggiunto, il tradimento dietro le spalle di cui avevano fatto il pieno le mie orbite, mi aveva indotta a nutrire il fervido desiderio di ridurla in una crisi di nervi e gelosie ambulanti non tanto più per darla in pasto ad una Elsa magari, per mostrargli naturalmente e senza implicazioni troppo deludenti o riportate quale era la vera faccia di quella donna, quanto più per darla in pasto allo sguardo ribelle di quello che, ormai ne ero sicura, era per quanto mi riguardava e a tutti gli effetti il suo amante. Nessuna svestizione della commediante insulsa che era a sfavore dell'anima pura e innocente che intendeva vendere al posto di quella nera e marcia come la mia che gli si celava dentro, solo un impulso bruciante e volitivo di dare uno dei primi tanti schiaffi morali che era mia intenzione dare ai due figli di puttana fedigrafi fino a quello che sarebbe stato il glorioso giorno del loro empio verdetto finale.
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Turbid Obsession (Camren)
Fanfic"Non poter fare a meno di qualcosa non significa che la possediamo, ma che ne siamo posseduti."