Epilogo.

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Due mesi dopo. 


Mattia si alzò in piedi e agguantò le due stampelle di gomma e acciaio che lo stavano fissando, poggiate al lato della parete. Se le mise sotto alle braccia e zompettò davanti all'armadio. Le ante in legno di mogano erano spalancate e per terra c'era una distesa di giacche e completi eleganti.

Aveva passato tutto il pomeriggio nella sua stanza a cercare l'accostamento perfetto, ma qualsiasi cosa mettesse lo seccava. Provarsi vestiti stando in equilibrio su una sola gamba e inveendo ogniqualvolta il gesso strusciava contro la stoffa dei pantaloni era estenuante e dannatamente fastidioso. Gli faceva quasi venir voglia di afferrare il cellulare e rifiutare l'invito di Nadia di partecipare a quel maledetto ballo.

L'anno accademico era ormai volto al termine e la sessione estiva degli esami era scivolata via come gocce d'acqua sulla pelle bagnata. La L.U.S.I aveva già aperto i battenti alla nuova campagna d'iscrizioni universitarie, tappezzando ogni centimetro quadrato della città di volantini e pubblicità con frasi accattivanti.

Mattia era uscito dalla clinica da più di un mese. La sua ripresa era stata un continuo crescendo ma la risposta positiva alle terapie e ai farmici non era andata di pari passo con la discesa del dolore percepito. Quello, invece, era stato altalenante e a tratti quasi impossibile da sopportare. Le ferite che la lamiera dell'auto gli aveva provocato sul corpo si erano suturate nel giro di qualche settimana, lasciando soltanto dei pallidi segni biancastri che probabilmente si sarebbe portato come bagaglio personale per il resto della vita. Ma le cicatrici non facevano male. No... Erano le varie fratture scomposte a farlo svegliare durante la notte, madido di sudore e con l'assurda voglia di strapparsela via, quella gamba rotta. Di sfilarsi a una a una le costole incrinate e tornare a respirare a pieni polmoni, come se fosse ancora tutto intero. Come se quell'incidente non lo avesse spezzato in tanti frammenti di ossa e dolore.

Era quella la parte peggiore.

La fisioterapia occupava il secondo posto nelle attività più moleste: Carlotta, la dottoressa che lo seguiva, era giovane e prestante. Si era laureata da soli tre anni e già lavorava in una clinica riabilitativa privata. Era brava a fare il suo mestiere. Peccato che non riuscisse ancora a teletrasportare il dolore di ogni movimento che lo induceva a fare da qualche altra parte lontana nel mondo. Altrimenti sarebbe stata perfetta, con quel camice bianco a maniche corte e quel sorriso alla "dai, che ci penso io a rimetterti in sesto". In ogni caso, grazie alla sua infinita pazienza e anche a qualche sua sfuriata, Carlotta era riuscita a ridargli il dono respirare senza ansimare per il fastidio al costato e a camminare un passo alla volta. Le stampelle erano diventate le sue migliori amiche e lo accompagnavano durante tutte le giornate, nei brevi tratti di strada che era obbligato a percorrere per non incappare in una scongiurata atrofizzazione del muscolo quadricipite femorale.

Se avesse continuato a seguire in maniera costante la sua tabella di marcia, se ne sarebbe sbarazzato definitivamente nel giro di un altro mese e mezzo. Tempo lungo ma accettabile.

Stando a casa, aveva potuto recuperare un po' di parti della sua vita abitudinaria che negli ultimi tempi era andata persa: si era rimesso sotto con gli studi, macinando pagine di diritto ed economia, e aveva preso nuovamente contatti con gli organizzatori del corso extrauniversitario, che non avevano mai smesso di contattarlo via mail durante tutta la sua degenza. Le potenzialità di Mattia, secondo loro, erano troppo brillanti e di rilievo per lasciarsele sfuggire dalle mani, solo a causa di un piccolo ritardo nelle iscrizioni. Per questo avevano contattato i suoi genitori poco dopo le scadenze, inviando loro una proroga di qualche settimana e il diritto di seguire il corso per via telematica.

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