42. Buio {Ken Kaneki}

141 19 14
                                    

Dopo un mese di assenza, sono tornata a scrivere. Un velo di contemporanea malinconia si riflette nel seguente brano: se vi lascia l'amaro in bocca, sarò riuscita nel mio intento.

Il vicolo cieco che aveva scelto tra tanti, quasi a caso, per vegetare, quella notte, era un po' più buio degli altri.
Alla fine della strada, delle scatole sfrattate, assieme a qualche bottiglia vuota, dimoravano in terra, ai piedi di un cassonetto. Felini di varie dimensioni miagolavano e vi aggiravano intorno.
Pochi gradini e una ringhiera in ferro portavano chissà dove; in chissà quale abitazione di chissà quale povero uomo.
La luce smorzata del lampione che andava e veniva illuminava la figura esile dell'albino e il vetro di forma cilindrica passava tra la mano destra che impugnava il contenitore fino ad appoggiarsi sulle labbra carnose del giovane vestito di stracci neri, mentre il cappuccio della felpa gli copriva il volto. Come se l'oscurità regnante non ne fosse stata in grado.
Ogni tanto, il suono di qualche clacson e sirena rompeva il silenzio. Ma era per un attimo solo. Un fastidioso istante che solamente chi è in perenne cerca del silenzio ha il coraggio di rinnegare, senza apprezzarlo; a cui soltanto chi è stufo della città, prigione in cui si ritrova a vivere, decide di sfuggire.
Il puzzo dei rifiuti che aleggiava all'interno della viuzza circoscritta dalle mura imbrattate di fabbricati dalle modeste dimensioni si mescolava con qualcos'altro di meno sgradevole, più affilato e sfuggente. E sebbene ogni vicolo non abbia alcuno sbocco o via d'uscita, chi vi entra si sente più libero e al sicuro di chi lo guarda da fuori.
Forse, perché è lontano da tutto ma, al tempo stesso, vi è così dannatamente vicino.
Forse, perché si può essere chi si vuole e, magari, chi si è realmente nel buio pesto che vi regna. E questo fa paura, è così arduo e non comporta ricompense.
Ma nella sua solitudine, qualcuno aveva scelto di fregarsene; se ne fregava di ogni cosa: non era chi stava dimostrando di essere e non lo sarebbe stato di nuovo.
Eppure, in quel momento, aveva deciso di fingere.
Non gli piaceva bere, non gli era mai piaciuta l'idea di affogare la sua disperazione in un bicchiere riempito di feccia o quella di lasciare a del liquido colorato la possibilità di soffocare le sue grida di dolore e di rigettarle nello stomaco, da dove erano venute e nate.
Eppure, seduto su uno dei gradini della scalinata in ferro, stava facendo tutto ciò che aveva sempre giudicato errato.
Oramai singhiozzava, ed era come se il suo cervello si fosse rassegnato al momento, stanco di lavorare ancora. La vista era sfocata, mentre le palpebre, fattesi pesanti, prima si chiudevano, poi riuscivano a sollevarsi di poco. Per poi cadere ancora: un Ghoul non può bere. Ma, in verità, non dovrebbe farlo a quel modo nemmeno un normale essere umano.
Aogiri, l'Anteiku e la morte; quanta morte aveva visto fino ad allora? Aveva assistito persino al perire di gente viva e voleva dimenticarsi, per un attimo soltanto, del mondo in cui viveva e aveva creduto, per cui aveva combattuto.
E ci stava riuscendo, ma a quale scopo?
Tanto presto sarebbe ritornato alla terrificante normalità.
Ubriacarsi è routine di qualsiasi infelice; un insieme di gesti che si ripetono, a cui nessuno da peso o importanza.
Sicuramente, di lì a poco, sarebbe scoppiato a ridere senza un motivo preciso, avrebbe iniziato a farneticare, a recitare pensieri a caso sottovoce. Ma non gli importava poi granché di finire disteso al suolo, o peggio ancora sotto un auto. In quel momento, c'era soltanto lui; e allora sì, che sarebbe andato tutto bene. In quel momento, c'erano solo lui e la dannata bottiglia di vino.
E nel colore di quel liquido rossastro il suo viso stanco si rifletteva anche quella notte, mentre si scioglievano con il ghiaccio i pensieri del momento. Quelli negativi, di sicuro; ma anche quelli gioiosi.
I primi che, come gli altri o forse di più, fanno parte di noi.
Energia che vaga e corre nel filo isolante che è il nostro corpo, fino a giungere alla testa, lampadina di una luminosità disarmante la quale, a volte, si lascia spegnere da un buio che, in realtà, potrebbe benissimo trasformare in luce.

We all have a story {Tokyo Ghoul}Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora