46. Luce {Akira Mado, Haise Sasaki} pt. 1

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Le veniva difficile guardare la televisione mentre l'occhio batteva in quel modo: sembrava accompagnasse le immagini che si susseguivano sullo schermo e si alternavano ad un momento di buio silenzio.

Ma quella frenesia palpebrale era tutto, fuorché una congiuntivite. E non doveva essere stato solo il vento a causare quel tintinnio di ciglia, anche se doveva ammettere di stare perdendo colpi. Così si rimproverò in silenzio per aver dimenticato l'ombrello a casa quando calpestava il marciapiede bagnato sulla strada per la CCG, dando un'occhiata alle aiuole recintate ai bordi della strada, mentre il soprabito beige, nelle cui tasche aveva conservato le mani, le smascherava il vestito di sotto e le gambe scoperte tremavano e respirava nuvole bianche con il naso rosso e freddo.

Effettivamente, era strano che fosse capitato proprio a lei. Ma sicuramente i fazzoletti stropicciati che portava prima al viso e infine abbandonava sul divano dove era sdraiata in pigiama con un plaid addosso erano la conseguenza di una simile e insolita dimenticanza. Eppure l'occhio, ne era convinta, non faceva in quel modo per puro caso.

In fondo, si conosceva bene. Come quando vide tutto offuscato per un'improvvisa fitta alla testa durane il raid all'Anteiku e poche ore dopo apprese la triste notizia che il suo capo era oramai morto in battaglia. Quando ebbe la certezza di averlo fatto, si rimproverò di aver ricordato un simile evento e spense il televisore a schermo piatto confinato in uno degli spazi della libreria. Sugli altri, vasi sontuosi e altri soprammobili, libri di varie misure.

Ne prese uno, senza avere intenzione di leggerlo. Lo accarezzò con le mani lisce e si nascose dietro le tende della finestra, finché lo vide e chiuse gli occhi sospirando, come fa una madre al ritorno del figlio ubriaco, notandolo dal balcone barcollare, accasciarsi al suolo e poi riprendere le forze per un istante per fischiare giovani donne in minigonna e automobili sfreccianti che suonano il loro clacson di rimando e contribuiscono al frastuono delle notti di sabato.

Posò il romanzo da qualche parte e attese con la schiena alla porta di sentire un fischiettio per le scale che portavano all'appartamento e il suono del campanello. Poi aprì il portone e dovette per forza chinare il capo per poter ammirare la sua piccola preda, in tutto il suo flaccido splendore, dormire sui suoi piedi, tutta piegato su se stessa, stremata, distesa sull'uscio della porta appena gliel'aveva mostrata come il cane che non aveva mai avuto.

Arricciò il naso e fece roteare gli occhi in una smorfia che avrebbe fatto ridere anche l'impassibile Arima, ma si innervosì ancora di più al pensiero che, quando glielo avrebbe raccontato per far sì che rimproverasse il suo allievo, il suo capo l'avrebbe presa in giro con l'assurdo rimando alla figura materna che faceva parte della loro noiosa routine.

Questo, sia perché fosse ancora tanto giovane e la situazione in cui era non di rado coinvolta le faceva venire le rughe, anche mentali, sia perché tutto ciò implicava in chi assisteva il fatto che l'albino diventasse automaticamente il suo coniuge. E, a quel punto, lei non avrebbe mai potuto chiedere sventura peggiore, di un uomo che non amava, mentre ve ne era stato uno, in passato, per cui avrebbe scalato vette insormontabili.

Così, la loro era la relazione inesistente più buffa spifferata tra le mura degli uffici investigativi e quei due vecchietti, sulla bocca di tutti, non facevano niente per smentire i pettegolezzi, anzi li alimentavano con gesti quotidiani e improvvisi, ma assai discutibili. Per esempio, quella volta, Haise avrebbe potuto recarsi benissimo in casa propria.
E invece era lì proprio da lei, come se fosse normale.

Eppure, ella lo trascinò nel suo appartamento. Ma solamente perché sapeva che non avrebbe risolto nulla lasciandolo lì a vegetare sullo zerbino. E non riesco neanche a descrivere la reazione della vicina di casa della donna, che abitava di fronte a lei e assistette all'assurdo scenario, perché fu costretta ad uscire un momento per disfarsi della spazzatura domestica.

Né sono in grado di comunicarvi il numero di volte in cui Akira si pentì ad alta voce di non essersi laureata in legge, mentre era come se strisciasse per terra un cadavere: a quell'ora, ne era convinta, avrebbe già concluso con splendidi voti uno stage con qualche praticante del settore e avrebbe fatto beatamente parte di quella schiera di persone normali, di cui tanto si parla: quelle, si rammaricava, avevano un pregio inestimabile ed erano circondate da altra gente normale. E le appariva un'utopia tale condizione, mentre progettava una soluzione al suo nuovo problema.

Intanto, con lo stesso entusiasmo, Haise si dimenava nel sonno in pareva esser caduto e mugugnava qualcosa di incomprensibile per la donna che lo sveglio con un battito di mano, facendogli prendere un colpo, come per ringraziarlo della bella serata che avrebbero trascorso insieme quella notte, mentre una persona normale avrebbe avuto di meglio da fare. Magari a letto, magari con chi amava. Peccato che era utopica pure quella situazione, assieme alla visione di una spiaggia deserta in cui togliersi la vita in pace.

"Ricordami perché sono diventata un'investigatrice."-disse retoricamente, dopo aver rimediato dalla cucina una bottiglia di un intruglio che ricordava forte, per poi accomodarsi a terra, nel salone da pranzo, dove già giaceva, per merito delle sue spinte, il suo amico, incrociare le gambe e sgranchirsi la schiena: in fondo, l'unico modo per colloquiare con una persona ubriaca è bere fino ad ubriacarsi.

E non proferì parola per qualche minuto. Non prima di aver portato alle labbra il collo del contenitore di vetro. Così, deglutì in fretta quel liquido, sgranò gli occhi luccicanti e si leccò le labbra. Appoggiò le braccia tese dietro di lei, in modo che potessero sostenerla e restò in balia dell'alcool, per qualche minuto in estasi. Poi tirò uno schiaffo al suo sottoposto e lo guardò con sguardo torvo.

"Oggi è il mio giorno di riposo e tu vieni a disturbarmi a quest'ora."-lo rimproverò, mentre quello si dimenava per il dolore subito e la guardava con l'espressione da cucciolo bastonato in cerca di protezione, che si chiedeva il motivo dell'accaduto. In tutta risposta, la donna ripeté un'ultima volta ciò che aveva già annunciato prima con una voce a metà tra il serio e lo scherno. Poi, si sistemò a pancia in giù lungo il pavimento in legno dell'appartamento, con l'orecchio sinistro appoggiato al suolo.

"Ho cercato di comportarmi in modo normale con te..."-iniziò, guadagnandosi la completa attenzione del collega che intanto indietreggiò strisciando fino a raggiungere una parete alla quale sostenersi con la schiena.
"...ma credo, tuttora, che non tu meriti un simile trattamento da parte mia."-concluse in un sorriso impuro, ricordandosi degli eventi passati.

L'investigatore non era in grado di spiegarsi perché fosse andato proprio lì. In verità, era già tanto se ricordava il suo nome e il perché si fosse ridotto in quel modo: la missione affidata a lui e ai Quinx, difatti, prevedeva di sottoporre a spionaggio un ex membro di Aogiri che diceva di aver finito con certe malefatte. Ma chi poteva immaginare che gli investigatori avrebbero dovuto seguirlo sino in una discoteca?

E tra un bicchiere e l'altro, si sa, si perde il conto e il senno. Talvolta, anche il lavoro.
Ma quello non era assolutamente il suo caso: nah! Arima non l'avrebbe mai permesso...
Ed era triste immaginarsene il motivo, ma non averlo mai sentito proferire a parole dal diretto interessato.

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