34. Armonia {Shuu Tsukiyama x OC}

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Non sono stata io, ma il mio amore per Tsukiyama a scrivere tutto ciò.
Infatti, mi sono resa conto soltanto adesso di non avergli dedicato mai niente di importante.
Non saprei nemmeno come descrivere quanto fatto, piuttosto lascio a voi i commenti.
Buona lettura!

Piccola curiosità: il nome Miwa ha molteplici significati. Tra i più rincorrenti, ricordiamo bellezza e, appunto, armonia.

Le mani affusolate del giovane pianista si muovevano sinuosamente sulla tastiera del pianoforte. Andavano avanti e indietro talvolta lentamente e talvolta con una velocità e abilità elegantemente disarmante. Un dito premeva un tasto, e a sua volta un secondo polpastrello andava a finire su un altro.
I piedi lavoravano un po' di meno, ma lavoravano. Si dividevano la fatica e quando uno si adagiava su un pedale, l'altro colpiva dolcemente il pavimento per tenere il tempo.
La testa era china sullo strumento, le labbra incurvate in un sorriso gentile, ma teso. Gli occhi socchiusi, invece, di tanto in tanto si schiudevano per dare una veloce occhiata alle note sullo spartito, adagiato quasi per sbaglio sul leggio. Inutile dire, infatti, che stava lì più per scaramanzia che necessità.
E dopo una veloce assenza, questi ultimi prendevano a controllare il lavoro svolto dalle mani. Fino a quando non si distraevano nuovamente ad ammirare quelli degli spettatori.
E soltanto quando Tsukiyama riusciva ad intravedere, tra tutti coloro in ascolto, la famiglia sorridente, dinanzi la sua musica, muovere lentamente il capo su e giù in segno di approvazione, soddisfatta, allora le piccole gemme viola ritornavano a concentrarsi, per davvero, sui tasti dello strumento che tanto amava sin da bambino: non doveva sbagliare; non poteva. Non sarebbe mai capitato, ma quello continuava a preoccuparsene, tanta era la passione per ciò che stava facendo e la voglia di far contenti i propri cari.
Eppure, il pianoforte verticale che suonava quella sera a scuola era molto meno bello di quello a corde che aveva da sempre adornato l'immensa sala da pranzo della sua casa.
Ma questo non impediva al giovanotto di sognare anche in quella occasione, cullato dalla dolce melodia che stava producendo, e ammaliato dalla sfuggente presenza della violinista, sua compagna di classe: gli occhi azzurri celati dalle palpebre allora abbassate, la cui forma a mandorla veniva delineata da un filo di matita nera, le labbra rosee fini e appena visibili dipinte di un rosso non troppo impegnativo e che la tenera età che aveva la studentessa le permetteva di sfoggiare, il lungo vestito bianco che le stava di incanto e che, da quando l'aveva vista con quello addosso, aveva invaso i pensieri più intimi del nostro musicista, le braccia lasciate scoperte dalla stoffa chiara e le mani che stringevano il pezzo di legno di cui ella si apprestava a far vibrare le corde sottili, erano tutto ciò che provocavano un evidente rossore sulle guance del pianista.
Il suo sguardo, invece, era indeciso. E oscillava tra l'esaminare il lavoro che stavo svolgendo lui stesso, e l'osservare il compito che stava portando a termine la bella compagna con cui i professori desiderarono che collaborasse.
La dolce Miwa, infatti, non era ancora entrata a far parte come si deve di nessuno dei gruppetti in cui i bambini della scuola decidevano di dividersi per chiacchierare. Era nuova.
E nonostante fosse molto bella, la sua timidezza impediva ai deliziosi e alquanto femminili tratti del viso, alla carnagione chiara, agli smalti con cui adorava dipingere le sue unghie e ai polsi adornati da svariati accessori colorati, di diventare l'argomento più discusso dell'istituto.
Ma con Tsukiyama questa natura riservata non veniva mai fuori, né tanto meno lui si preoccupava più di tanto di disturbare la bionda e di costringerla a parlare.
Gli altri, invece, scambiavano la sua difficoltà per arroganza; la sua delicatezza per superbia.
E nessuno parlava a Miwa.
Tutti la osservavano in silenzio e contemplavano la grazia che metteva in ogni cosa che si apprestava a fare. Ma non osavano entrare il quel mondo di raffinatezza e interrompere il suo da farsi.
Nemmeno Tsukiyama aveva molti amici: lo consideravano strano. Ma non capiva come mai.
Dal canto suo, invece, egli rimaneva spesso incantato a fissare le forme gentili che, già da quando la maestra l'aveva presentata alla classe, ella possedeva.
E non aveva detto niente a nessuno della piccola cotta che si era presa per l'armonia che regnava nel rapporto tra lei e il mondo: la spiava spesso, e non l'aveva mai sentita urlare, né piangere, né si era mai reso conto, scrutando quel sorriso pacato, angelico e pacifico, che qualcosa nella sua vita non andasse.
E questo non soltanto perché la famiglia benestante alla quale apparteneva non le faceva mancare niente, da un punto di vista materiale e economico. Ma, secondo il giovane pianista, quella ragazza era davvero in pace con se stessa e con gli altri: era ammirevole come non avesse paura della solitudine in cui si era ritrovata a vivere, a causa dei cambiamenti che fu costretta ad accettare per via del trasloco.
E Tsukiyama era davvero colpito dall'impegno con cui decideva di fare ogni cosa.
E anche in quel momento, dinanzi ad un modesto pubblico di persone quasi dormienti, Miwa non smetteva di muovere su e giù l'archetto del suo violino con forza e coraggio. Ad ogni movimento, nessun tentennamento e nessuna indecisione, nonostante fosse evidente che la musica classica non piaceva poi granché ai più giovani. Ma da quei gesti, traspariva soltanto eleganza e delicatezza. Che poi è sinonimo di bontà.
Persino i lunghi capelli dorati cadevano morbidamente sulla sua schiena.
Ed erano così tanti i delicati boccoli che giacevano sul piccolo capo della giovane, che Tsukiyama assisteva spesso ad un curioso movimento da parte della sua mano.
E una volta che un ciocca bionda finiva sul viso, impedendole in quel modo di vedere, con l'aiuto di dita lunghe e sottili, quella riconduceva il ciuffo dietro l'orecchio, dove non era più in grado di recare fastidio. Tanta era la sinuosità che le apparteneva anche in quei casi.
E il nostro giovane protagonista non aveva mai potuto ammirare niente del genere, prima di allora: in fondo, la sua compagna era l'unica che gli somigliasse realmente.
E, forse, questa somiglianza con l'unica persona alla quale, di tanto in tanto, sorrideva, l'aveva intuita anche lei, rimanendone soddisfatta.
Quando suonavano assieme, inoltre, quei due sembravano uno soltanto; una cosa sola.
Erano speciali, erano complementari e, forse, destinati ad amarsi.
Ognuno pensava all'altro e, osservandolo, riusciva a scorgere nella sua delicatezza un complice.
E mentre gli altri bambini in classe o dormivano con la testa adagiata sul banco o lanciavano roba in aria o disturbavano la lezione e la maestra, loro prendevano appunti e ascoltavano le parole che venivano proferite dall'insegnante, senza perdere di vista una virgola. Mentre gli altri si urlavano contro, e si toccavano, loro rimanevano immobili e si guardavano. Senza assaporarsi con le mani. Anche se Tsukiyama pensava spesso ad una simile svolta; al giorno in cui avrebbero potuto finalmente mordersi e baciarsi liberamente.
Ma quelli erano soltanto dei pensieri; desideri affidati alle stelle cadenti e al vento d'estate. Poesie mai dedicate, parole mai pronunciate.

Perché il loro rapporto era semplicemente una melodia, niente di più e niente di meno.
Era complicità e silenzio; era far parlare il cuore e non la testa, soltanto al momento opportuno.
Era capirsi e non giudicare, era aspettarsi e assecondarsi.

E questo l'avevano intuito tutti. Ma l'avevano intuito quando il pasticcio era già stato combinato.
Alla fine dello spettacolo, quando, cessata la musica e liberatesi le mani di quei legni pregiati, la tensione nei loro visi svanì e si trasformò in soddisfazione.
Quando, tra applausi e fischi di approvazione, le luci del palco illuminavano soltanto due sorrisi beati; due sorrisi che non riuscivano a scorgere sostanziali differenze nell'altro, per quanto riguardava la propria natura.

Era una dolce armonia.

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