6. Occhi di perla

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«Sono in ritardo» pensò Aris guardando l’orologio di fretta.

«A che ore è che partiva il treno?» si chiedeva confuso mentre i suoi piedi si susseguivano goffi sulla banchina del binario cinque.

«Spero sia il binario giusto» bofonchiava.

Un fievole rumore in lontananza preannunciò l’arrivo del treno che in pochi minuti raggiunse Aris che attendeva impaziente. Preceduta da uno stridente urlo dei binari e una folata di vento tiepido, la porta del terzo vagone si fermò precisamente davanti al ragazzo che, impugnata saldamente la valigia, si preparò a salire.

I suoi occhi si velarono di uno spesso strato di malinconia e la sua mente si spense un attimo; le persone che scendevano dal treno iniziarono a scontrarlo e insultarlo. Scosse leggermente la testa, arrossì per l’imbarazzo e salì barcollante le scalette della vettura.

Il suo posto era il 7b, lato finestrino, seconda cuccetta del vagone.
Percorse lo stretto corridoio trascinando a fatica la pesante valigia che si portava dietro, sino a incrociare i suoi occhi nel riflesso del vetro che citava “Cabina 2: 7a/7b,8c /8d,9e/9f”.
Entrò con discrezione nonostante la cabina fosse ancora vuota. Si tolse la giacca e la appese all’appendiabiti posto sopra il suo sedile e, posata la valigia nel porta oggetti, si raggomitolò sulla poltrona.

Il treno era deserto a quell’ora del mattino. Dovevano essere circa le sei e l’atmosfera all’interno dei vagoni era spaventosamente silente; nessun suono proveniva dalle altre cuccette, nessuna voce, nessun passo.
Aris si domandò se fosse l’unico passeggero, mostrandosi per qualche attimo preoccupato; poco dopo, il vuoto pervase di nuovo il suo sguardo e i suoi pensieri tornarono a vagare.

«E’ veramente arrivato il momento» pensava guardando dal finestrino.
«E’ tempo di dirti addio. Devo andare avanti. Non posso più stare qui, questo posto non è più casa mia. Casa mia eri tu, le tue braccia, il tuo sorriso, la tua risata.»

Aris strinse forte la mano destra, poggiata sul ginocchio, mentre un fiotto di tristezza gli saliva in gola.

«Non posso andare avanti così. Non ce la faccio più.»

I suoi occhi si fecero di nuovo lucidi. Il corpo si rilassò, le spalle sprofondarono maggiormente nel morbido schienale della seduta e la testa si abbondonò all’indietro.

Distolse lo sguardo da quella mite giornata che si affacciava al finestrino. Il sole non era ancora sorto, ma da lì a poco, una miriade di dolci sfumature rosate e cristalline avrebbe inondato quel cielo di metà Agosto.

Socchiuse gli occhi e si portò le cuffiette alle orecchie. Mise play e tentò di rasserenarsi.

«Starò facendo la cosa giusta?» I suoi pensieri non si fermavano.
«Andrà tutto bene» si prometteva. «E’ la scelta giusta, andrà tutto bene.»

Le sue palpebre si fecero improvvisamente pesanti e la nostalgica melodia che suonava docile nelle sue orecchie lo cullò in un candido tepore soporifero.

Dopo pochi minuti il treno cominciò la sua marcia, e il suo movimento lieve e la fioca luce della cabina, accompagnarono Aris all’entrata di un breve sonno risanatore.

«Mi scusi» Affermò una voce vellutata accompagnata da una mano gentile che sfiorò appena la spalla di Aris, svegliandolo.
«Mi dispiace di averla svegliata, devo chiederle il biglietto» proseguì quella calda voce.

Gli occhi di Aris erano in grave difficoltà; ormai il sole era sorto e la luce inondava la cabina del treno. Il giovane appena sveglio non riuscì a distinguere a pieno ciò che aveva intorno.

Un’esile figura gli stava di fronte: cercò di concentrarsi e mettere a fuoco, tradusse le informazioni che erano giunte al suo cervello ancora addormentato e, riconobbe una figura;
Era un ragazzo giovane vestito con una stretta e aderente divisa nera dai bordini rossi con su scritto “Ferrovie dello stato”.

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