2. Lacrime d'argento

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La vista di Aris era offuscata e la sua testa girava come una giostra per bambini. La nausea si era posata sul suo petto, pronta a farlo rimettere da un momento all’altro e le sue mani, velate da uno spesso strato di tensione, tremavano all’impazzata.
Il cuore gli trapanava il petto senza tregua e sembrava non avere intenzione di rallentare per nessuna ragione al mondo.
Mentre il tempo riprendeva a scorrere, ogni singolo muscolo del suo corpo si immobilizzava e perdeva vigore.

Senza riuscire a muoversi o a respirare, in quel momento, solo e spaventato, si sentiva morire.

Nel buio dell’appartamento cercò di riprendere il controllo del suo corpo e fuggire dalle grinfie del panico. Scosse la testa e si alzò dal divano per cercare il telefono che gli era scivolato di mano; si mise a quattro zampe sul pavimento e dopo aver battuto la testa sul tavolino, a tentoni, riuscì a trovarlo:
«Pronto?» la sua voce tremava, «Pronto?»
Avevano riattaccato.

Iniziò a vagare nell’attico alla rinfusa scontrando ogni mobile che gli intralciasse la strada. Iniziò a correre per raggiungere l’ingresso e uscire al più presto possibile; andò a sbattere contro la porta prima di riuscire ad aprirla e fece gli scalini a tre a tre quasi rischiando di ruzzolare giù per le scale. Giunto al piano terra, si fiondò verso il portone inciampando nella passiera che abbelliva l'androne: si ritrovò disteso a terra con il viso illuminato dai lampi è l’animo massacrato dal rimbombo incessante dei tuoni. Rimase immobile per diversi secondi, cercando di rialzarsi; sentiva un’immensa stanchezza che pungeva I suoi muscoli addormentati. Raccogliendo tutte le forze che gli erano rimaste si tirò su e aprì il portone ritrovandosi davanti al gocciolio costante che colpiva il terreno.

Fece qualche passo in avanti e si fermò sotto la pioggia battente; in pochi minuti i suoi vestiti si inzupparono completamente mentre alcune gocce gentili gli sfiorarono con dolcezza le guance. Rimase immobile per qualche secondo, lasciandosi consolare da quel temporale, fissando il cielo cupo in silenzio e ammirando i fulmini in cielo che si diramavano in piccole radici e andavano a riempire l’oscurità di quella notte.

Si diresse affannato fra le macchine posteggiate davanti al portone, cercando di raggiungere la fermata dell’autobus poco distante. Le sue mani tremavano gelide e la vista era annebbiata; la pioggia incessante peggiorava la situazione. Un fortissimo capogiro lo colpì alla testa, come un dolore sordo alla nuca, che lo costrinse ad accasciarsi per terra strisciando sulla fiancata di un auto. Rannicchiato ai piedi della macchina e inzuppato dalla pungente pioggia, si sentì mancare il respiro, preoccupato di non riuscire a proseguire.
Sì alzò dalla pozza a fatica e, barcollando, proseguì la sua discesa all’inferno.

Ripercorse di nuovo quel piccolo vialetto che separava casa sua dalla fermata dell’autobus. Accennò qualche passo, con il viso illuminato dai lampi e dalla luce giallognola di tetri lampioni al sodio e rimase in ascolto per qualche istante.

Le fronde degli alberi picchiavano rumorosamente sulla sua testa, le une contro le altre, tramortite da un vento di tempesta che non accennava a smettere.

Questa volta, tutto era in subbuglio. Tutto era dinamicamente in allerta.
Una forte paura gli riempì il petto, paralizzandolo un’altra volta; la tempesta voleva impedirgli di andare avanti, gli intralciava il cammino, gli appesantiva le gambe.

Lo torturava.

Una forte scarica di adrenalina gli percorse la schiena, partendo dal petto e irradiandosi in tutti i muscoli del suo corpo.

Tentò di fuggire da tutte quelle ombre deformi.

Corse, corse affannato.

La pioggia continuava a cadergli crudele sulla testa mentre le forze iniziavano a mancargli. Dai suoi capelli, fradici, cadevano sinuosi zampilli d’acqua.

Si fermò esausto. Posò le mani sulle ginocchia, curvando la schiena in avanti, e tentò di placare il suo respiro irregolare. Si scrollò di dosso tutta quella fatica, socchiuse gli occhi per qualche secondo e con estrema stanchezza percorse gli ultimi metri che lo separavano dalla fermata, vacillando.

Radicatosi in un punto qualunque del marciapiede, fece un respiro profondo. L’autobus arrivò poco dopo e una lieve folata di vento lo avvolse come una fresca carezza. Le ruote si impantanarono nella pozza sul ciglio della strada, mentre la sporca carrozzeria arancione che si avvicinava a gran velocità risplendeva sotto le luci della sera.
Le porte si aprirono davanti a lui e la luce giallastra e artificiale della cabina del conducente gli illuminò gli occhi. Trovò posto in prossimità dell’uscita e si mise a sedere.
L’odore predominante era quello di urina e alcol accompagnato dal nauseabondo fetore di sudore e sporcizia. L’atmosfera era pesante, umida e la temperatura all’interno era intollerabilmente alta. I finestrini, rigorosamente serrati a causa della pioggia, creavano una fastidiosa sensazione di claustrofobia.

Aris si poggiò stremato sullo schienale del sedile in plastica, con la testa che gravava sul vetro del finestrino. I suoi occhi asciutti si persero nel vuoto, senza riuscire a distinguere alcun particolare. La strada, le auto, le case erano solo ombre sfocate e in movimento che non riuscivano ad attirare la sua attenzione: solo un’infinità di puntini colorati e intermittenti che si susseguivano veloci.

Il temporale iniziò a scemare e con lui il rumore dei tuoni; le ultime gocce ritardatarie colpivano il terreno dolcemente e l’ira del cielo si spostava a poco a poco, lasciandogli la possibilità di guarire e tornare terso come in una normale sera d’estate.

Fatto silenzio in cielo, il rumore dei pensieri di Aris tonò a rimbombare furioso.
«Salve, sto parlando con Aris?» Tuonava nella sua mente.
«Sono un’infermiera dell’ospedale» faceva eco tra le pareti della testa del ragazzo.

“Ospedale”.

Quella parola concretizzava ogni paura che aveva anche solo minimamente sfiorato il suo animo.

«Venga al più presto.»
E poi di nuovo quel tonfo. Il tonfo del telefono che cade dalle sue mani e giace sul pavimento mentre il suo cuore si frantuma in mille, piccoli e affilati pezzi.

Stava succedendo davvero, qualcosa era successo.

L’autobus cominciò a girargli intorno dopo che quelle parole percossero, con violenza, la sua mente. Tutto si fece di nuovo confuso finché il buio prese il sopravvento.

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