1. Il rumore della pioggia

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Il cielo di quella triste sera di luglio sembrava non voler smettere di lacrimare.

Lo scroscio di ogni goccia di pioggia rimbombava sull'asfalto e tutto ciò che si sentiva era un cupo e ripetitivo eco che faceva da cornice alla tenebrosa penombra delle nubi.
Solo alcuni lampi rischiaravano la tempesta, intervallati da potenti boati che facevano tremare il terreno.
Una piccola palazzina assisteva inerme al temporale, illuminando la strada con le luci che si affacciavano dalle finestre. Le sue mura accoglievano a malavoglia le lacrime che si riversavano su di esse, travisando la furia della tempesta e tramutandola in mite e apparente quiete, all’interno.

Un ragazzo, Aris, si esponeva a quel pianto sperando di venirne compatito. Un ragazzo giovane, sui ventiquattro anni, con il viso stanco di chi sa scrivere la parola “dolore” in lettere maiuscole. Osservava il temporale da dietro le fessure della persiana socchiusa, senza emettere un fiato, impotente. I suoi capelli color nocciola si adagiavano sul telaio della finestra e nei suoi occhi color ghiaccio, in stretta confidenza con il vuoto, si rifletteva il bagliore acuto dei lampi.

Il suo sguardo era intento a scrutare ogni singolo zampillo di pioggia che gli bagnava il braccio, esposto a quel temporale estivo. La manica della camicia bianca che indossava era completamente inzuppata, ma non riusciva a chiudere la persiana. Era paralizzato, sembrava aver dimenticato come muovere i muscoli.

Trovò la forza e si sollevò dal suo cantuccio di tristezza. Iniziò a passeggiare irrequieto nell’attico; si muoveva come un fantasma e, facendo particolare attenzione, sembrava di poter sentire il rumore delle catene che si portava dietro, che gli appesantivano l’anima.
Il parquet in legno scricchiolava sinistro ad ogni suo passo, avanti e indietro senza sosta, mentre gelidi rivoli di sudore gli inumidivano le tempie.

«Dov’è?» gli martellava la testa, «perché non è a casa?»

Si diresse verso la cucina, dalla quale si diffondeva in tutta la casa un pungente profumo di spezie; aveva preparato un cena orientale per il suo amato. Iniziò a mettere in ordine sperando che la sua testa smettesse di tempestare, prima di tornare a passeggiare inquieto nell'attico.

«Lo avranno trattenuto a lavoro» pensò ignaro. E come quello milioni di altri pensieri continuavano a riempirgli rumorosamente la testa ormai da un’ora. Ad ogni minuto senza sue notizie, la frustrazione e la preoccupazione aumentavano e, per Aris, l’unico appiglio era il telefono, che aveva preso d’assalto, zampettando sullo schermo senza tregua.

Nessuna risposta.
Nessun barlume di speranza.

Ad ogni squillo che risuonava a vuoto, il suo cuore accelerava di un battito. Sempre più veloce, sempre più rapido ad ogni rimbombo di quel suono impersonale e ovattato.

Continuò a camminare per tutto il corridoio con il telefono in mano, ripetendosi che non fosse successo nulla.

Avvicinatosi al soffice divano, si lasciò crollare su di esso, poggiando il cellulare sul tavolino, lì davanti, dove era adagiato un vaso color melanzana; si protrasse in avanti e sfiorò delicatamente le eleganti orchidee situate all’interno.

Come erano fragili in quel momento.
Permise alla testa di sprofondare tra i cuscini e sentì il suo corpo abbandonarsi pesantemente al suo abbraccio confortevole.

Dopo un respiro profondo, una lacrima gli rigò la guancia segnando ore di profonda tensione.

«Non è successo niente» pensò asciugandosi gli occhi.

«Non è successo niente» si confortava.

Eppure, mentre tornava a casa, aveva sentito qualcosa; stava camminando per la strada, un vialetto che percorreva sempre quando non utilizzava l'auto, mal illuminato, sporco, sempre desolato. C'era silenzio, più del solito. Il cielo sembrava più nero e le macchine più ferme. Non sembrava che stesse camminando, volteggiava, si muoveva in qualche modo, ma era tutto immobile. Il tempo stava in silenzio e non c'era un filo di aria.

Lo aveva sentito.
C'era qualcosa di diverso.

Un lampo fece saltare il salvavita dell’appartamento, spegnendo tutte le luci di casa e abbandonando Aris nel completo buio e nella più sconfortante solitudine. Dopo il potentissimo boato che gli scosse i timpani, si ritrovò a fissare l’oblio, inerte, mentre il tempo sembrava essersi zittito e il vuoto aveva pervaso la stanza.

Tutto era immobile. Perfino la pioggia pareva essersi fermata; non una goccia si sentiva gocciare, non un filo di vento spirava.

In quell’atmosfera surreale, la suoneria del telefono squillò forte nell'appaertamento e la luce dello schermo illuminò il suo viso terrorizzato. Le mani iniziarono a tremare e il gelo si impadronì del suo cuore. Cercando di mantenere la calma, si allungò verso il tavolino e afferrando il telefono rispose con voce tremante:

«Pronto?»

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