26. Memorie di ghiaccio

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L'appartamento era rimasto identico.
Uno spesso strato di polvere nascondeva i ricordi sparpagliati per casa e l'aria viziata avvolgeva i mobili.

Tutto sembrava congelato, come se in quell'anno ogni oggetto e ogni singolo granello di polvere avesse aspettato il ritorno di Aris.

Era rimasto tutto come lo aveva lasciato prima di partire per Milano: le persiane chiuse, il letto disfatto, il tappeto in soggiorno spostato e gli armadi in disordine.

Si aggirava per casa con passo lento, quasi fluttuando. Si muoveva con una stanca lentezza, come un fantasma.

L’aria sembrava non bastargli, con quell’odore di chiuso che gli solleticava le narici. Sentiva quella sensazione strana, quella che si prova quando si torna a casa dopo un lungo viaggio, quando ci si sente estranei a casa propria e si riscoprono le forme e i colori della propria quotidianità.

Erano successe così tante cose, era tutto cambiato.

Le sue labbra incominciarono a tremare e il suo cuore prese a battere più piano. Ogni singolo angolo di quella casa gli ricordava Francesco; anche l'oggetto più insignificante gli portava alla mente ricordi e immagini. Li sentiva tutti sulla pelle, come se stessero accadendo di nuovo, come un film davanti agli occhi, proprio lì, proprio in quel momento.

Passò vicino al divano, sfiorando i cuscini con una mano e si accovacciò ai suoi piedi, per terra, inerme. La stanchezza gli aveva invaso i muscoli, camminare oltre sarebbe stato impossibile. Si rannicchiò su se stesso, abbracciando le ginocchia, e osservò in silenzio la casa in cui aveva vissuto gli anni più felici della sua vita.

Appoggiò la schiena al divano e, nella penombra, permise ai ricordi più insistenti di pervaderlo.

Poco oltre il divano, scrutava, in lontananza, Il vaso color melanzana nell’angolo. Francesco lo aveva fatto cadere per sbaglio e i cocci si erano adagiati sul pavimento. Tenevano tanto a quel vaso, lo avevano comprato insieme mentre sognavano un piccolo appartamento per loro.

Aris non si perse d’animo, riattaccò i pezzi con una speciale colla dorata che rese il vaso ancora più bello e speciale.

Le crepe lo resero ancora più forte.

Da allora decisero di farvi abitare dentro delle stupende orchidee. Si ripromisero che, ogni tanto, avrebbero comprato dei fiori e li avrebbero messi in quel vaso.

Dalla morte di Francesco le orchidee erano appassite senza le cure di Aris. Le aveva gettate via, non era riuscito a trovare il coraggio di comprarne di nuove.

Gli sembrò di sentire ancora il loro profumo mentre ricordava quei momenti. Si portò una mano alla fronte e poggiò la testa sul divano.

Oltre all’odore di fiori gli parve di sentire anche quell’acuto profumo di spezie che si sentiva quasi ogni giorno in casa loro. Amavano la cucina orientale e, quando avevano tempo, passavano ore a provare nuove ricette, insieme.

Aris rise, rise di gusto.
Ricordò anche l’odore dolciastro che odiava tanto ma che piaceva a Francesco. L’odore di quella candela alla vaniglia che in pochi minuti inondava la casa con il suo gusto dolce. Aris la detestava.

Continuò a ridere prima di sprofondare di nuovo nell’apatia.

Fissò il vuoto per una decina di minuti. Trattenne le lacrime.

Il viso di Francesco, il bellissimo viso di Francesco, stava incominciando a sbiadire nella sua testa. Non vedeva una sua foto dal giorno del funerale; rimpiangeva di non averne portato una con sé. Si mise in piedi a fatica tentando di dirigersi verso la camera da letto, perseguitato dai ricordi.

Entrò, si fece spazio tra l’oscurità e andò ad aprire le finestre. Una folata di vento fresco lo colpì; nel capoluogo ligure l’estate faceva i capricci.

Strizzò gli occhi per la forte luce e si voltò. Vide quel letto, quel letto stropicciato in cui aveva pianto e amato tanto. Si sentì mancare.

Adagiata sopra, c’era ancora la morbida coperta color pesca che Francesco gli aveva regalato. Si avvicinò e la sfiorò. Profumava del suo amato e di tutto quello che avevano passato insieme; se la portò intorno alle spalle e ci si strinse dentro.

Si sedette sul ciglio del letto, dal lato in cui, un tempo, Francesco riposava.
Si voltò d’istinto quasi come avesse sentito qualcosa, ma non trovò nulla.

Si voltò di nuovo, cercando la cornice che il ragazzo teneva sul comodino. L’aveva coperta, gli faceva troppo male vederla. Non riusciva più a dormire in quel letto dopo la morte di Francesco; avevano condiviso troppo fra quelle lenzuola.

Afferrò delicatamente la maglietta che vi aveva gettato sopra e la mise da parte.

Rimase in silenzio, ad osservare quella foto.

Lui e il fidanzato, che si abbracciavano forte. Era una festa di compleanno, erano così giovani. Negli occhi di Aris era riflessa la spensieratezza dei 18 anni e in quelli di Francesco lo scintillio della passione dei primi tempi. Si desideravano e si stringevano come se temessero di perdersi. Sembravano così felici, come se tutto intorno avesse poca importanza: erano semplicemente loro.

Prese la cornice in mano e con un gesto gentile accarezzò il viso di Francesco. Era come se lo ricordava anzi, più bello. Nei primi mesi riusciva solo a vedere il suo volto tumefatto dall’incidente. Ma ora, nella sua memoria, era bellissimo, splendeva.

Abbracciò la cornice e si abbandonò nel letto.

Un’ora volò via senza avvisare. Rimase raggomitolato nella coperta, adagiato sul cuscino del fidanzato fin quando riuscì a riprendere il controllo della sua tristezza.

Si alzò lentamente e si avvicinò alla cassettiera di fianco alla porta. Aprì il secondo cassetto. Un forte odore di chiuso si sprigionò da esso; rovistò tra le lenzuola finché non trovò ciò che stava cercano: la sua mano percepì la stoffa ruvida della scatoletta in velluto che aveva nascosto in mezzo ai vestiti.

Tirò fuori quella scatoletta e la strinse forte nella mano destra.

Uscì di casa, andò a trovare l’amore della sua vita.

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