28. Fiori d'arancio

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Il dolce ragazzo camminava piano sull’orlo della scogliera, la loro scogliera, sulla quale avevano condiviso alcuni dei loro momenti più belli. Il sole stava cominciando a calare e le prime luci della sera si accendevano sulla lunga passeggiata abbronzata.

Aris si portò una mano al viso, scostandosi un ciuffo di folti capelli biondi dalla fronte; il vento mite del tramonto gli accarezzava le guance e nei suoi occhi si rifletteva sconfinata, la linea rosata dell’orizzonte lontano.

Aveva guidato fino a lì con celestiale calma, nessun pensiero lo infastidiva.

Le strade genovesi erano vuote e assolate e il tempo, dopo la visita al cimitero, sembrava scorrere più lentamente, con più significato.

Quanto gli faceva effetto essere di nuovo su quello scoglio, dopo un anno, dopo quella lite insulsa e dopo quella proposta. Ricordava quei giorni, colmi di sentimenti - di rabbia soprattutto- con un sottile sorriso: come era bello litigare con Francesco, come era bello riappacificarsi con lui e tornare ad amarsi come se nulla fosse successo. Gli tornarono alla memoria le parole che aveva rivolto al fidanzato; ricordava quanto lo avesse fatto infuriare l’idea che il suo Uomo avesse sfiorato il corpo di un altro ragazzo e nel suo cuore si fece di nuovo avanti il terrore, quello che gela le ossa, di aver potuto perdere tutto quello che aveva creato con lui.
Si fermò un attimo.

«L’ho davvero perso, in realtà» pensò.
Scosse la testa, non era vero. Era rimasto tutto come prima. Non lo aveva perso, conservava tutto nel suo cuore.

Proseguì la sua camminata, osservando il mare aranciato che danzava sotto di lui.

«Vorrei che tu fossi mio marito» gli parve di sentire.
Come suonarono melodiose quelle parole nella sua testa; lo riempirono di gioia.

Si sedette a fianco di quella casetta colorata che aveva fatto ombra ai due in quegli anni; le persiane sbattevano percosse dalla brezza violenta del mare. Si mise comodo, si sistemò i capelli e si abbandonò ad osservare il mare, in silenzio, solo, che più solo non si può.

Sentiva una malinconica solitudine sconfortate che gli attanagliava il cuore, che lo faceva sentire vivo e gli teneva compagnia. Non era solo, poteva contare su molti, ma si sentiva perso. Libero.
Non aveva più vincoli di nessun tipo: il suo Liko non c’era più e ormai gli sembrava fossero passati secoli dall’ultima volta in cui gli aveva augurato “buona giornata” e lo aveva baciato gentilmente sussurrandogli “ti amo” all’orecchio; non dipendeva più da nessuno, poteva mantenersi da sé e aveva raggiunto un precario equilibrio psicologico.

Era solo, era tutto passato e ora non aveva più ragioni per vivere.

Guardò ancora il mare, che si stava facendo sempre più scuro e profondo, si affacciò dallo scoglio e osservò le punte aguzze delle pomici levigate.

Si sarebbe potuto lasciare andare.

Avrebbe potuto farsi cullare dal mare, lasciarsi sprofondare in profondità, sempre più giù, fino a sentire le sirene cantare la sua canzone.

Che senso aveva vivere così, senza uno scopo, senza nessuno?

Si mise una mano in tasca e sfiorò un piccolo foglietto, dimenticato in quel posto buio chissà da quanto. Lo aprì:

LIKO

Rimase impassibile, ricordò quel pezzo di carta, lo abbracciò forte.

«Devi lasciarlo andare.»

Si stropicciò gli occhi e poggiò il foglio sul palmo della mano, la alzò e la espose al vento caldo che spirava dal mare. Quel pezzetto di carta spiccò il volo e con leggiadra lentezza, si allontanò dal dolce Aris che assistette inerme finché non lo vide appoggiarsi su un’onda blu e perdersi nella scia di sfumature rosate dell’orizzonte.

Si raggomitolò in sé. Adesso aveva lasciato andare tutto quello che di negativo era rimasto del suo Francesco.

Che fine aveva fatto il loro amore, i loro sogni, le loro speranze, lo loro promesse, erano tutte volate via insieme a quel foglietto?

Erano tutte morte con Francesco?

Forse sì. Forse Aris doveva svegliare quei ricordi infreddoliti.

«Amore mio» sussurrò.
Si mise in piedi, prese la scatoletta che aveva in tasca e la aprì. Rimase ad osservare quell’anello in argento che non aveva avuto il coraggio di tenere al dito e sentì una folata di vento gelido accarezzargli il corpo.

Un abbraccio.

«Prometto,» incominciò a tremare. «Di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita.»
Prese l’anello con la mano che tremava meno e se lo mise al dito.
«Lo voglio» la sua voce era fragile e frastagliata.

Chiuse gli occhi. Fece una preghiera, pregò quel Dio che molte volte non lo aveva ascoltato.

Il suo anulare bruciava forte.
Un’energia buona lo circondava.
Aveva dato un senso a tutto, si era creato un futuro con il suo amato, gli promise che lo avrebbe amato per sempre.

Erano di nuovo insieme, lo sentiva dentro di sé adesso. Sentiva parole dolci fluire nelle sue orecchie, pensieri gioiosi e la melodia dell’amore tornare a suonare nel suo ventre arido.

Le catene di ghiaccio che gli intrappolavano il cuore, finalmente, si sciolsero.

Ora era completo.
Ora poteva tornare ad amare.

Non era più solo, suo marito sarebbe sempre rimasto al suo fianco, pronto ad amarlo vivendo nei suoi ricordi.

Per sempre.

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