27. Fiori di pesco

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Il cimitero genovese distava pochi kilometri da casa. Il corpo del dolce Francesco attendeva la visita di Aris.

Lo raggiunse in poco meno di 20 minuti. Scese dall'auto, sorpassò il grande cancello spalancato, coperto da alti alberi protettori. Un lungo vialetto lo accolse, con una fila di cipressi che ondeggiavano all’ombra di un candido santuario.

La brezza tiepida dell’estate ligure gli accarezzava i capelli e un delicato profumo di fiori caduti confortava il suo passo lento.

Si addentrò tra le viuzze del cimitero, svoltando a destra e si lasciò trasportare dal mistico silenzio che avvolgeva le pietre. Non un uccellino si sentiva cinguettare, era tutto in quiete; solo il rumore delle foglie che cadevano con lentezza sinuosa scandiva il tempo.

Una strana energia scorreva nel suo corpo, una malinconica melodia gli suonava nei timpani.
Sentiva delle vibrazioni provenire dalla terra, quella terra nella quale riposavano sogni, ricordi e storie.

I suoi occhi si persero tra le file ordinate di lapidi che attiravano la sua attenzione, con quel marmo freddo e quei fiori variopinti.

Lesse tutti i nomi, uno ad uno.

Proseguì il suo cammino rispettoso, accarezzando con l’anima la pietra di ogni persona che assisteva al suo passo triste.

Come poteva sentire più vita ed energia in quel luogo, che in qualunque altro posto fosse mai stato? Eppure era così, si sentiva connesso alla Terra, sentiva il suo cuore battere, il sangue scorrere; lui era ancora vivo, lui aveva ancora tanto da dare al mondo.

Salì delle scalette che lo condussero ad un’altra lunga fila di tombe.

Una piccola farfalla bianca lo seguì sino all’ultimo gradino, quando, in lontananza, vide un albero familiare, un albero di pesco immerso tra i gelsi e i pini. Poco più di un anno prima, quell’albero, aveva assistito inerme alle sue urla e i suoi pianti che si rifiutarono di avvicinarsi oltre.

Rimase proprio lì, dove si trovava ora, immobile, a piangere. Non ebbe la forza di dire addio a Francesco. Il ricordo di quelle foglie verdi ed allungate, posate con delicatezza sul legno scuro, era ancora vivido nella sua mente.

Il respiro gli si bloccò in gola. Strinse il pugno e si incamminò verso quel pesco.

Si avvicinò all’albero e vi poggiò una mano sopra, poi si voltò e vide quel marmo bianco che lo fissava.

Deglutì a fatica, gli occhi incominciarono a bruciargli. Accennò un passo, sentendo sulla gamba milioni di piccoli aghi conficcarsi nella carne.

Il suo cuore fu accoltellato dall’epitaffio:

FRANCESCO PASOLINI
1986-2015

Crollò in ginocchio su un manto di foglie e lacrime di fiori rosate, che il pesco aveva lasciato cadere per l’occasione. Accarezzò la pietra arida con la mano, spostando uno spesso strato di polvere e osservò di sfuggita la foto del suo Francesco nel fiore degli anni; era bellissimo, si sentì svenire. Il suo corpo, le sue ceneri mute, stavano lì sotto di lui, a riposo, nella polvere. Ma Aris, non lo sentiva in quel momento; il suo dolce sorriso e la sua risata puerile non c’erano più.

Il ricordo del suo amato incominciò ad ardergli nel petto, divampò come la fiamma della speranza. Rimase solo, abbandonato in quel giardino inumidito dalle lacrime di chi è rimasto, ad urlare in silenzio, a strapparsi l'anima con le unghie.

Si piegò in avanti, poggiò la fronte sul marmo infame e pianse. Pianse quelle lacrime che aveva trattenuto.

Rimase da solo in quel cimitero per più di un’ora, poi si alzò e andò dove il cuore gli suggerì di andare.

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