17. Tè

46 6 0
                                    

Aris tornò dalla dottoressa più volte a settimana.
Per I primi tempi aprirsi con lei fu faticoso, ma dopo poche sedute, quando i due incominciarono a darsi del tu, i suoi pensieri sembravano rasserenarsi, ordinarsi. Dovette rivangare sentimenti che pensava non lo avrebbero più tormentato, dovette affrontare sè stesso.

Non fu affatto facile; continuava a vedere Francesco, seppur sporadicamente, e tornava a casa piangendo ogni volta, un pianto buono, riparatore.

La sua mente si stava aprendo, finalmente vedeva una luce, una speranza.

Parlavano della sua infanzia, del lavoro, dell’università; sfioravano ogni argomento, eccetto uno: Francesco. La dottoressa Vanassi non sapeva ancora nulla del fidanzato defunto, non sapeva che aspetto avesse e non sapeva che tipo di legame ci fosse tra i due. Non riteneva che Aris fosse pronto a parlarne, voleva prima instaurare un rapporto di fiducia, di apertura e di condivisione.

Col passare delle sedute, il ragazzo, si sentiva sempre più a suo agio e sempre più vicino ad affrontare la causa che lo aveva fatto arrivare fino a lì.

In un freddo pomeriggio di Novembre, come tutte le settimane, Aris si incamminò verso lo studio.

Nubi scure coprivano il cielo che sembrava però intenzionato a resistere e a trattenersi.

Entrò e salutò cortesemente la dottoressa; lei gli sorrise e gli fece segno di accomodarsi. Gli offrì quindi una tazza di tè, per scaldarsi da quel gelo autunnale; si alzò e accese un bollitore elettrico, situato su un piccolo tavolino in legno, poco distante dalla scrivania. Quel caotico ordine regnava anche lì: sembrava che tutti gli oggetti fossero stati accatastanti seguendo uno schema preciso: affianco al bollitore, una macchina del caffè, una pila di libri e riviste e appoggiate al muro, una serie di cartoline colorate, di dimensioni diverse.

Mentre Aris osservava incuriosito quegli oggetti, la dottoressa si avvicinò a lui con in mano un’elegante scatola in legno bianco, stretta e lunga. Gliela porse: una scatola porta tè, all’interno, ogni tipo di infuso che possa esistere. English breakfast, Prince of Wales, tè verde, tè nero e mille altri.

Aris prese una piccola bustina lilla di tè al gelsomino e la strinse forte nella mano in attesa dell’acqua calda. Lei optò per un Earl Grey al bergamotto.

Preparate le loro tazze, si sedettero sui divanetti, uno di fronte all’altra.
«Quindi, caro Aris, come ti senti oggi?» disse lei sorseggiando il suo tè.
«Mi sento un po’… stanco, non so, vuoto… forse. Però sto bene. Oggi, più del solito… lo sento» disse stringendo forte la tazza calda per scaldarsi le mani.
«Cosa intendi con “lo sento”? Hai voglia di spiegarmi cosa provi?»
«Non so… è strano. Certi giorni mi capita di sentirlo sulla pelle, o… di sentire il suo profumo. Ricordi, momenti, non riesco a controllarlo.»
«Quello è il nostro obiettivo. Non devi fare tutto da solo. Potremmo dire che stai sperimentando una sorta di sindrome dell’arto fantasma. Ne hai mai sentito parlare?» chiese cercando di attenuare il suo accento.

Aris scosse la testa, assaggiando il suo tè.

«Naturalmente, lo devi immaginare da un punto di vista metaforico e psicologico. Ma credo che sia un esempio calzante per farti notare quanto il nostro cervello sia sorprendente» fece una pausa per creare suspense. «La maggior parte dei pazienti che subiscono l’amputazione di un arto, alle volte, come dici tu, sentono il loro arto. Da un punto di vista scientifico, le loro terminazioni nervose recise inviano degli impulsi elettrici, ma per come la vedo io, il loro cervello, non vuole accettare di sentirsi incompleto.»

Ci fu un attimo di silenzio.

«Proviamo ad andare più in profondità, caro. Chi senti?»

Aris rimase un po’ stordito da quella domanda, come se non ne capisse il significato.
«Ehm… Lik… Francesco» rispose quasi con una domanda.
«Non avevi ancora pronunciato il suo nome in questo studio» disse lei tagliente. «Hai voglia di parlarmi di lui?»

Aris abbassò lo sguardo.

«Come era?» incalzò la dottoressa.
Il ragazzo prese un respiro profondo; «Lui… Francesco era… bellissimo. Aveva due occhi verdi, chiarissimi e… dolci, tanto dolci. Gli piaceva stare in silenzio, a volte: gli piaceva osservare» fece una risatina. «Mi sono sempre chiesto cosa ci vedesse con quegli occhi. Vedeva la bellezza in ogni cosa. Vedeva la bellezza… in me.»

Aris si strofinò il braccio sinistro chiudendosi nelle spalle. La dottoressa restava ad ascoltare.
«Sorrideva sempre e aveva un sorriso così… stupendo. Non era bravo a parlare di sé, preferiva ascoltare. Diceva di non aver molto da dire, ma dentro aveva un mondo, giuro, un mondo bellissimo, che non mostrava a tutti» scosse la testa mentre i suoi occhi turchesi si facevano lucidi.
«Era un architetto bravissimo, avrebbe fatto carriera, ne sono certo. Gli piaceva suonare il piano,» sorrise immaginando le dita di Francesco sfiorare delicate i tasti di un pianoforte. «Ma non riusciva a ricordare le note. Aveva una memoria tremenda, non è mai riuscito ad azzeccare un anniversario. A me non importava, me n’ero fatto una ragione» fece una pausa.
«Il suo colore preferito era il verde, il verde acqua» La sua voce incominciò ad affievolirsi.  «Indossava sempre delle calze colorate, sotto i pantaloni. Faceva una cosa col sopracciglio,» disse indicandosi l’occhio sinistro, fissando il vuoto, «quando era nervoso o si grattava il naso quando si sentiva a disagio. Pensava che non sapessi nulla di lui,» la sua voce si spezzò bruscamente, «era tutto quello che avevo.»

Il tè era ormai tiepido e il gelo si era infiltrato anche all’interno della stanza. I suoi occhi bruciavano come non mai, ma non gocciolavano.
Erano lucidi ma non piangevano.

«Cosa non gli ha detto Aris?» disse la dottoressa con tono conciso.
«Non gli ho detto…» disse con un filo di voce il ragazzo, alzando lo sguardo. «Che ero felice» Si lasciò scappare una lacrima sottile. «E che lo saremmo stati, insieme. Non gli ho detto che lo avevo perdonato, anzi, che non è mai cambiato nulla. Non gli ho detto…» chiuse gli occhi e si chinò in avanti stringendo forte il pugno sul ginocchio. «Non gli ho detto subito “sì”» Urlò. «Non gli ho mai dato abbastanza. Non l’ho fatto sentire abbastanza, e ora…» urlò ancora più forte. «Ora è morto.»

Torno ad affogare nelle lacrime come faceva un tempo, quando la mancanza di Francesco gli lacerava il cuore, quando tutto sembrava un incubo, quando aspettava di svegliarsi e di rivederlo, lì, nel letto accanto a lui.

Pianse, pianse. Si sentiva svenire. Sentiva come un dolore fisico, come un pugno al cuore, dritto nello sterno.

La dottoressa, abituata a quel genere di reazioni, gli porse un pacchetto di fazzoletti, cinica, senza dire niente.
«Mi dispiace» disse Aris, fra le lacrime, afferrando il pacchetto.
«Ne verrai fuori. Questa è la strada giusta» la sua voce era secca e lineare.
«Ma come?» chiese il ragazzo piangente, quasi adirato.
«Così, mio caro» fece un gesto con la mano, «proprio così. Vivendo questo dolore. Alimentandolo, come una fiamma. Devi dargli ossigeno, altrimenti, ti brucerà dall’interno.»
Aris la guardò con occhi tristi e si soffiò il naso, senza smettere di piangere.
«Credo che per oggi, possa bastare» affermò con tono conclusivo.

Aris tornò a casa in autobus pensando ancora a tutte le lacrime che aveva trattenuto in quei mesi e a tutti i sentimenti che aveva soffocato. Fissava fuori dal finestrino in silenzio cercando di canalizzare i pensieri in un’unica direzione, senza curve o sbandate improvvise. Non aveva più pensato a Francesco: aveva cercato di scordarlo ma non ci era riuscito. Aveva solo dimenticato tutti i dettagli più belli del suo amato, si era perso tutte le piccole cose, lo aveva lasciato andare ma non aveva tolto l’ancora.

Arrivò a casa e vide Nico, solo, che studiava o almeno tentava di farlo.
«Aris, come è andata?» chiese con tono stanco.
Aris lo scrutò per qualche secondo, e senza rispondergli, si avvicinò e lo abbracciò forte.

«Ti voglio bene, Nico» sussurrò.
«Non lascerò più nulla di non detto» pensò.

00:27Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora