Gli autobus viaggiavano e andavano chissà dove. Correvano come il tempo, ed io mi sentivo travolto dalla nostalgia che esso è in grado di provocare a chi il tempo lo vive davvero. La voglia di dire "mi dispiace" era talmente forte che lo avrei gridato anche al primo passante, la voglia di correre non mi rapisce mai nei momenti giusti. Sentivo solo che la tristezza cominciava a percorrermi le interiora e niente era capace di fermarla. Ma io volevo battermi, proclamare guerra a me stesso e ai demoni del mio passato, volevo che le persone capissero cosa volesse dire soffrire davvero. Finti depressi, vergognatevi.
Un ragazzo si sedette accanto a me su quelle fredde panchine alla fermata, teneva un libro tra le mani, gli occhi vuoti erano cerchiati di stanchezza e la bocca era segnata da leggeri tagli rossastri. Mi chiesi se stesse male, dentro dico, se stesse affrontando una lotta peggiore della mia. Le mani mi tremarono quando si girò verso di me e puntò gli occhi sul mio viso, ma capii che non mi stava guardando come si guarda uno sconosciuto. Lessi richieste d'aiuto che nessuno si era preso la briga di concedergli, lessi suppliche che tutto finisse senza colpirlo troppo. Il mio autobus arrivò in orario proprio il giorno in cui non avrebbe dovuto, mi alzai, mi girai e dissi "mi dispiace" con lo sguardo mortificato.
"Scusa ragazzo. Non sono in grado di proteggere me stesso. Non posso fare niente per te."
Mi sbagliavo.
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