(R) CAPITOLO 27: Inciso sulla pelle

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Furono giorni difficili quelli che seguirono, avvolti da una fredda monotonia.
Ero stanca, non solo fisicamente, ma soprattutto emotivamente e psicologicamente.

Dopo la prima battaglia ne erano seguite diverse altre e ogni volta che vedevo più morti e più dolore il mio cuore perdeva un pezzo.

Non c'erano più feste che riuscissero ad allietare le serate, a distrarre le nostre menti dall'orrore. Non sarebbe più bastato un boccale di birra e il sorriso di un bel giovane. Non per me.

Avrei voluto smetterla di pensare, ma portavo un fardello, un pensiero fisso da cui non riuscivo a scappare. Stavo continuando a seguire i miei ideali ed ero sicura di fare la cosa giusta per me, ma per gli altri? Li avrei costretti a rimanere in quel luogo per sempre? Avrei costretto me stessa in un luogo che mi devastava giorno dopo giorno sempre di più? Che mi risucchiava l'anima?

Ormai non c'erano più dubbi: per poter passare al mondo successivo dovevamo uccidere. A quel punto anche Jasmine lo aveva fatto e aveva ricevuto il marchio sul polso, proprio come gli altri tre: una piaga a forma di x sulla pelle, indelebile. Il nostro lasciapassare.

Era già trascorsa una settimana dal nostro arrivo all'accampamento e noi avevamo partecipato ad altri quattro scontri, nei quali me l'ero cavata senza causare la morte di nessuno. Quattro battaglie dove ero sopravvissuta, più o meno. Potrei dilungarmi nel narrare gli orrori che avevo visto, le crudeltà e l'odio di cui fui testimone, ma risvegliano in me solo brutti ricordi e non mi aiuterebbero a dimenticare.

Come ho già detto, quelli furono giorni difficili. Il giorno era orrore e la notte era lo specchio di quello che avevo vissuto da sveglia. Non c'era fuga.

Ormai in quegli uomini non riconoscevo più neppure l'eroismo. Li vedevo per quello che erano: persone comuni chiamate a prendersi sulle spalle responsabilità non loro. Eroi o non eroi, per il mio sguardo pessimistico erano solo carne da macello. Probabili future vittime di una carneficina.

Procedevo come in trance, avevo trovato una sorta di salvezza nell'annullamento di me stessa, tecnica che avevo affinato nella mia adolescenza, giorno dopo giorno, per sostenere la mia maschera di imperturbabilità. Ero ancora brava per fortuna.

Avevo ripreso a fingere di disinteressarmi di tutto. Non mi curavo di Alysha, della sua figura misteriosa e tormentata, né di Zac, che da quando aveva ucciso non era più riuscito a sorridere. Me ne infischiavo di Jas, delle sue battute taglienti e delle sue occhiate omicide. Ignoravo Chris e non mi curavo del fatto che anche lui ignorasse me, anche se un paio di volte lo avevo visto rivolgermi qualche occhiata strana. Non mi curavo perfino del povero Oliver, che, come me, sembrava vivere malissimo il compito di uccidere.

Non mi davo pensiero della morte in agguato, degli incubi e del sangue.

Non badavo al fatto che tutte queste fossero delle bugie.

MAJESTEN- Il ViaggioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora