Capitolo 43

35 10 2
                                    

Sentivo il sole tiepido illuminarmi il viso e una coperta doppia di pale scaldare le mie gambe. Con le mani gelide stropicciai gli occhi, effettuando un grande sbadiglio e rendendomi conto, solo una volta schiuse le palpebre, di non essere nella mia stanza, né in una casa a me conosciuta. Mi misi seduta sul letto con il cuore in gola e le pulsazioni udibili anche nella testa. Era una stanza accogliente: il camino in pietra consumava lentamente la legna, lanciando ogni tanto piccole scintille rosse e arancioni, le pareti erano decorate con diverse foto di bambini che sorridevano in delle cornici colorate differentemente l'una dall'altra e il letto, che sembrava più alto di uno comune, era uno dei più morbidi che avessi mai provato. Era una stanza maschile, sicuramente. 

Mi alzai dal letto con calma, avvicinandomi al camino che illuminava con il suo fuoco la stanza di colori caldi e confortevoli. Avvicinai una sedia e provai a riscaldare le mani. Indossavo ancora i vestiti della partita, ma i miei capelli scendevano sciolti e mossi lungo le spalle e la fascia regalatami da Kyle avvolgeva un mio polso.

«Ti sei svegliata» sorrise Max, entrando nella stanza con un sacchetto di carta bianca in una mano e due tazze rosse nell'altra. Impulsivamente mi alzai. Mi sentivo come se stessi occupando la sua privacy. Cosa ci facevo nella sua camera?

«Siediti, non ti sforzare troppo» mi disse, porgendomi il sacchetto e una delle due tazze. Prese un'altra sedia, avvicinandola alla mia e sedendosi. Feci come mi aveva detto.

«Come stai?» domandò, sorseggiando dalla sua tazza fumante.

«Mi sento bene» risposi, evitando di guardarlo negli occhi per l'imbarazzo, imitandolo nel bere. 

Scartai anche il sacchetto bianco, trovando una conchiglia al cioccolato. Per un secondo rimasi imbambolata, fissando il contenuto, ma poi mi risposi che fosse solo tutta coincidenza. Non poteva certamente sapere cosa preferivo per colazione. Lo fissai per un secondo, senza però addentare il cibo.

«Puoi mangiare, io l'ho già fatto» mi spiegò, allungando le lunghe gambe e incrociando i piedi difronte al camino.

«Quanto... quanto tempo ho dormito?» domandai, balbettando per l'imbarazzo, mentre tentavo di mordere la conchiglia senza sporcarmi.

«Tutta la notte. Sono le nove del mattino» rispose, staccando gli occhi dal fuoco, osservando prima l'orologio al polso, poi me. Fortunatamente era domenica, niente scuola. 

Un angolo della sua bocca si alzò in un sorriso. Perché rideva? Inclinai la testa, corrucciando la fronte, e una ciocca di capelli mi coprì parte del viso. Sentii la sua mano toccarmi una guancia, riportando i capelli dietro un orecchio e vidi il suo viso tirato in un sorriso ancora più grande.

«Sei sporca di cioccolato» rispose alla mia silenziosa domanda. Spontaneamente leccai le labbra con la lingua, indicandole poi con un indice.

«Ancora. Aspetta, faccio io» propose, senza neanche darmi il tempo di ribattere. 

Mi fissò negli occhi in modo strano, come se mi stesse leggendo dentro, tanto che non riuscii a sostenere più lo sguardo e lo abbassai, cambiando argomento, mentre lui passava un dito su un angolo delle labbra: «Vive da solo?». Fu la prima cosa che mi passò per la testa. Annuì.

«Ancora la storia del "lei"?» rise, coinvolgendo anche me, continuando a parlare solo dopo un paio di secondi.

«Sì, anche mio fratello è in questa città, ma vive al piano di sotto. Abbiamo deciso di prenderci ognuno il proprio appartamento per essere più indipendenti»

«E i suoi genitori?» domandai, finendo totalmente la mia colazione. Non appena vidi la sua espressione cambiare, capii che anche per lui era un tasto dolente.

«Scusi» dissi affrettatamente, capendo.

«Non devi scusarti- mi sorrise forzatamente-, sono passati anni, ma fa sempre male»

«Non sa quanto la possa capire» dichiarai.

«Tua madre?» domandò d'un tratto.

«Lo sa?»

«No... ehm, sì, l'ho sentito dire»

Mi sembrava insolito che qualcuno parlasse della mia situazione familiare, ma non era del tutto impossibile. Eppure il suo viso diventò più rosso, mi pareva stesse nascondendo qualcosa. Nonostante ciò, mi sentivo pronta a parlarne con lui ed era strano. Non lo conoscevo. Non sapevo niente su di lui, a parte il suo nome e cognome e che avesse un fratello, ma mi ispirava fiducia. Forse perché credevo potesse capirmi. Lo vedevo lì, seduto e concentrato ad ascoltarmi sul serio.

«Mia madre se ne è andata al mio quindicesimo compleanno. Posso ancora sperare che un giorno ritorni, fortunatamente. Non saprei come fare se sapessi che non c'è più. Perché, anche se non è presente con me, oggi e da anni, posso ancora credere che recupererò tutto con lei e mettere il rancore da parte. Vorrei che un giorno mi dicesse cosa l'ha spinta ad abbandonarmi» dichiarai, torturandomi le mani e, infine, facendo un sorriso forzato. Vidi Max sbiancare un attimo.

«Scusa, non intendevo dire che...» cominciai, ma fu lui a frenarmi. Lui era stato più sfortunato di me, i suoi erano morti, ma non avrei voluto affatto ricordargli la sua disgrazia.

«Tranquilla» sussurrò, accarezzandomi un ginocchio.

«Era destino» continuò, tornando a fissare il fuoco scoppiettare. Evitai di rispondere per non creare altri guai.

«E tu? Quanti fratelli e sorelle hai?» domandò inaspettatamente.

«Solo un fratello più piccolo» sorrisi, pensando alla mia strana famiglia.

«Solo un fratello?» domandò, aggrottando le sopracciglia.

«Sì...» risposi assottigliando un tantino gli occhi e corrucciando la fronte involontariamente. Mi sembrava strano il suo comportamento, il modo in cui aveva pronunciato quelle parole.

«Credo di dover tornare a casa. Mio padre si sarà preoccupato, questa notte, non vedendomi rientrare» dissi, alzandomi dalla sedia.

«Tranquilla, ho detto al signor Collins che avresti dormito da una tua amica» mi rassicurò, alzandosi con me.

«Ti accompagno io, per evitare inconvenienti, sai» disse, prendendo una giacca dall'armadio in legno mogano, facendo riferimento alla serata precedente.

«Siete state fortunate che mi sia trovato lì per caso»

«Lo so, grazie» sorrisi in imbarazzo, seguendolo lungo le scale che portavano fuori dal palazzo.

«È la mia macchina, entra» disse, aprendomi velocemente lo sportello e guardandosi intorno.

«Che fine ha fatto quel ragazzo?» domandai non appena si fu seduto al posto del guidatore, ricordando quei suoi viscidi baci sul collo e provando una sensazione di ribrezzo.

«L'abbiamo lasciato alla polizia. Le tue amiche hanno riferito la vicenda»

«Stanno bene?»

«Stavano bene ieri sera, quindi sì, suppongo di sì» rispose.

«Perché mi hai portato a casa tua?» domandai dopo un paio di minuti di silenzio.

«Finalmente mi hai dato del "tu"» si accorse, facendomi sorridere. Non me ne ero neanche accorta.

«Se vuoi continuo a darti del "lei"»

Vedendolo scuotere la testa, senza staccare gli occhi dalla strada, mi scappò un sorriso sincero.

«Perché non volevo far preoccupare la tua famiglia. Eri svenuta» mi rispose alla precedente domanda, sottolineando l'evidenza. Per un attimo un senso di delusione attraversò il mio corpo. Perché Kyle non si era preso cura di me?

«Anche il signorino Johnson voleva portarti con sé, ma, essendo il più grande, ho preferito farlo io. Non so se puoi capirmi»

Annuii. Almeno sapevo che Kyle ci aveva provato.

«Mi ha fatto giurare di portarti a casa non appena ti fossi svegliata, sana e salva, altrimenti sarebbe venuto a darmi "una lezione"» dichiarò, ridendo, seguito da me. Mi fece piacere sentire quelle parole: forse un pochino gli importava di me.

Un amore al πDove le storie prendono vita. Scoprilo ora