Capitolo 50

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UNKNOWN'S POV

«Hai scoperto la verità?» mi chiese mio fratello più grande, al comando dell'associazione, passata a lui per eredità di famiglia.

«Ci sto lavorando...» risposi, con la solita scusa.

«È da un mese che ci stai lavorando, fratellino» rispose quello irritato, facendo ridacchiare tutti gli altri uomini che erano in semicerchio intorno a lui seduto su una sedia girevole in pelle nera davanti ad uno schermo che rivelava la vista di diverse telecamere.

«Non è semplice, ci vuole tempo per non farsi scoprire»

Lo vidi abbassare lo sguardo e alzare un angolo della bocca. Non ci somigliavamo quasi per niente, solo alcune espressioni del volto.

«Lasciateci soli, per favore» ordinò agli altri.

Quando fummo rimasti soli, si alzò con uno slancio agile dalla sedia, posizionando le sue grandi mani sulle mie spalle, con un sorriso sul volto.

«Fratellino...non dirmi che ti stai innamorando» inclinò leggermente la testa di lato, con un sorriso di chi la sa lunga.

«Steven, i nostri genitori ci hanno insegnato bene il nostro lavoro, non è possibile per noi cadere in trappole come l'amore. Dovresti conoscermi bene» risposi leggermente irritato dal suo mettermi in discussione.

«È proprio perché ti conosco così bene che ti sto mettendo in discussione.... però, se fossi convinto di ciò che dici, potrei crederti»

«Sono convinto. Mai mischiare il lavoro con il cuore»

«Perfetto. Hai un altro po' di tempo per chiudere il caso, altrimenti interverrò io stesso» disse infine, girandosi e chiudendo con uno scatto una cartella con le informazioni necessarie per risolvere il caso in questione.

«Non farmi pentire di averti dato altro tempo. Puoi essere anche mio fratello, ma ciò non ti risparmierà la giusta punizione»

Annuii, ingoiando rumorosamente la saliva. Per coloro che non riuscivano a chiudere il proprio caso nel tempo stabilito, c'era sempre una pena. Poteva essere fisica, come si immagina un inferno terrestre, oppure poteva direttamente esserci l'uscita dall'associazione. La scelta era tra le due. Molti erano troppo deboli per sopportare il dolore fisico così da scegliere automaticamente di essere cacciati. L'associazione era segreta, in principio serviva per aiutare i più deboli, per chiudere casi che tutti avevano paura di chiudere, per un motivo o per un altro, o per risolvere quelli che erano stati dati automaticamente come morti accidentali e così via. Insomma, per scoprire la verità e per fare giustizia. Inizialmente, quando era stata istituita dai miei progenitori, la società era piena zeppa di volontari pronti a lottare per la causa. Però in quel momento c'erano solo uomini che si credevano eroi più di quanto non dovessero sentirsi e punizioni più atroci del dovuto. Ricordavo perfettamente come una volta il tutto fosse tranquillo, quando io ero solo un bambino e a capo erano i miei genitori. Niente punizioni, solo voglia di farcela per il bene, non per la paura di essere punito. I volontari ad entrare erano sempre di meno, a causa di queste pene. Nessuno rischiava più la sua pelle per salvare quella degli altri, perché potevano esserci conseguenze dolorose.

«Puoi andare, fratellino...» disse Steven, sorridendomi. Mi voltai, intento a lasciare la stanza il prima possibile.

«Ah...puoi dire a Jefferson di entrare? Deve riscuotere la sua punizione» disse poi, mentre ero sull'uscio della porta. Sentivo tristezza nella sua voce, ma anche determinazione e convinzione che ciò che stava facendo fosse per il bene dell'associazione.

Con ancora la porta aperta, gli dissi: «Perché lo fai? Sai quanto me che non è ciò che i nostri genitori ci hanno tramandato, non è ciò che volevano»

«E tu sai quanto me che è l'unico modo per farsi rispettare»

«Non lo è. La paura non è l'unico modo per ottenere il rispetto» sussurrai quasi tra me e me, abbandonando la stanza e poi l'edificio con passo svelto.

L'associazione sarebbe ritornata alle origini prima o poi. Avrei solo dovuto far ragionare mio fratello.
La paura era davvero l'unico modo per ottenere il rispetto?

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