Marzo 1669

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Odiava terribilmente trovarsi nella sua stessa stanza, perché sapeva di non poter evitare che qualche volta i suoi occhi si posassero su di lui. Non che la attraesse, anzi: vedere la sua tonaca nera da diacono le faceva venire i brividi. Tuttavia, sapere di essere in qualche modo legata a lui le faceva nascere dentro un desiderio del tutto nuovo di vederlo. E di guardarlo. Di studiare il suo volto finché non le fosse divenuto inconfondibile. E, in fondo, sperava che lui facesse altrettanto. Si preoccupava di cogliere ogni minimo segnale e forse erano più le volte in cui equivocava un gesto banale che quelle in cui, effettivamente, Ottavio avesse voluto rivolgerle una cortesia. E lo guardava, e perdeva la cognizione del tempo, tralasciava le conversazioni di chi le stava vicino, tutto per fissarlo fino a che lui non l'avesse notata.

Riteneva di meritare un po' della sua attenzione, dato che era stato lui a corteggiarla in quel modo così calcolato e persuasivo. Il Damiani era partito a febbraio per una meta non ben precisata, rammaricandosi con la duchessina Eleonora che affari inattesi e scoccianti lo costringessero a separarsi da una fidanzata cui non aveva nulla da rimproverare. Benché le sue intenzioni, per una volta, fossero buone - non voleva che la sua reputazione fosse macchiata dal pettegolezzo - Damiani era riuscito a colorare un classico caso di rottura del fidanzamento con le tinte fosche del tradimento. Ora i cortigiani non solo sorridevano della sua nascita borghese: ora la schernivano apertamente perché un figlio loro l'aveva umiliata, abbandonandola sostanzialmente a un passo dall'altare.

"Avrà aperto gli occhi"

"Appena in tempo!"

"Ancora qualche settimana e non avrebbe più potuto farci niente"

Questo diceva la gente a palazzo. Era lei quella fuori posto tra le mura affrescate e le colonne di marmo.

Ottavio volse gli occhi su di lei, i loro sguardi si incontrarono. La mente di Galatea lasciò cadere le acide considerazioni che l'avevano distratta fino ad allora. Erano in due ad essere fuori posto: Ottavio non aveva nulla che lo avvicinasse all'ambiente in cui, per una congiuntura negativa, era dovuto tornare. Le conversazioni frivole non lo toccavano minimamente, porgeva annoiato l'orecchio alle adulazioni, stentava a seguire il filo dei discorsi di chi cercava di blandirlo con parole vaghe. Non poteva trarre altro che noia, come lei non poteva trarre che fastidio da quel luogo. Galatea capì tutto questo in un istante, il tempo in cui i loro occhi si specchiarono gli uni negli altri. Ottavio abbassò repentinamente lo sguardo, fingendo di ripulire l'abito dalla sottile polvere lasciata dall'intonaco. Galatea fece altrettanto, rivolgendosi alla duchessina Eleonora che le era accanto.

«Mio fratello sembra a disagio, non trovi anche tu?» sussurrò Eleonora ridacchiando.

«Non lo biasimo. È abituato a respirare tutt'altra aria» convenne lei, evitando di guardarlo di nuovo.

Eleonora annuì. Ai lati della sua bocca si incresparono un paio di rughe molto fini, le rughe della tristezza.

«L'ho invidiato molto per questo. È tanto tempo ormai che desidero andarmene da qui»

Galatea non afferrò subito il significato delle sue parole perché, come al solito, non le prestava grande attenzione. I discorsi della duchessina erano perlopiù fatui come la sua spiccata vanità; starla a sentire equivaleva a volare sopra una distesa di nebbia in cui, qua e là, si intravedeva talvolta un luccichio lontano. Questa volta la nebbia non c'era: Eleonora stava parlando sinceramente.

«Preferite cambiare sala, Vostra Altezza?» domandò, con la speranza che acconsentisse.

Eleonora sospirò: «Sì, Galatea. Speravo di trovare qui Tessa, ma forse sottovaluto gli impegni della vita nel matrimonio. Tessa deve accompagnare Dosi, ora»

Figlia di mercanteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora