Settembre 1666

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La famiglia ducale era ancora nel palazzo di campagna ad attendere alle battute di caccia e agli ultimi intimi banchetti in giardino. L'ultimo messaggero, arrivato solo due giorni prima, aveva detto che tutti godevano di ottima salute, che anche gli attacchi di sifilide del duca erano passati e per questo egli aveva potuto partecipare di nuovo, dopo la pausa dell'anno precedente, alla caccia al cervo. La corte ne gioì sinceramente, vedendo aprirsi una speranza per un felice avvenire.

Quel giorno, iniziato con un'alba struggente di colori tra il rosa e l'azzurro, vide l'arrivo di un secondo messo, molto più affaticato del primo: si era potuto permettere solo poche soste e aveva cambiato più cavalli che in tutti i viaggi che avesse mai compiuto prima. Aveva il fiato corto quando il primo ministro, avvisato in fretta e furia, si presentò a lui nel salone delle Udienze. Tutti temevano che la salute del duca fosse peggiorata; qualche nobildonna era già corsa nella cappella del palazzo a cingere il rosario. Ma il messo disse subito, ansimando: «Non il duca, ma il duchino Antonio!» poi non ebbe più forze e dovette prendere grandi respiri. Sul suo volto terreo si leggeva paura, anzi angoscia.

«Orsù, parlate, parlate dunque!» lo incalzò il primo ministro agitando le mani.

Il messo si appoggiò a una colonna e rispose: «Un incidente di caccia, Eccellenza. Il cavallo si è imbizzarrito e gli è caduto addosso. I medici hanno fatto il possibile»

Il ministro impallidì: «E' dunque morto?» bisbigliò, sfiorandosi i baffi con un dito.

«No – ansimò il messaggero – Ma le sue condizioni sono molto gravi. Non appena avrà la forza di viaggiare, l'intera famiglia tornerà qui con lui»

Le damigelle erano ormai tornate tutte dalla vacanza estiva e furono informate della notizia solo a sera, dopo essere rimaste isolate nelle camere della duchessina Eleonora. I contorni della vicenda erano ancora molto vaghi perché il messo, anche dopo essersi rifocillato a dovere, non aveva saputo aggiungere dettagli importanti. Portava una lettera con il sigillo ducale per accreditarsi come messaggero ufficiale, ma nient'altro. Perciò, tra i cortigiani si diffusero voci scettiche e anche i ministri del governo decisero di trattenere il messo sotto la sorveglianza delle guardie del palazzo.

Le voci dovettero cedere all'evidenza due settimane dopo, quando la famiglia ducale fece finalmente ritorno: il duchino Antonio venne accompagnato nella sua camera in barella, scortato dai medici che di continuo si assicuravano delle sue condizioni. Colorito pallido, viso emaciato, ematomi diffusi: ogni parte del suo corpo manifestava i postumi dell'incidente.

Le damigelle seguirono la scena da un cantuccio appartato, viste e non viste. Eleonora le raggiunse un'ora più tardi nel proprio studiolo.

«Sta male, non ve lo nascondo» confessò con voce rotta. I suoi occhi si riempirono di lacrime.

«Com'è potuto accadere?» domandò a mezza voce Tessa, l'unica abbastanza influente da spingere la duchessina a raccontare qualche dettaglio di più.

«Io non c'ero... Stavano inseguendo un cinghiale o un cervo, non ricordo... E d'un tratto il cavallo di mio fratello dev'essersi imbizzarrito, buttandolo a terra e quindi calpestandolo. Dicono che abbia gridato a squarciagola, ma che presto sia svenuto sopraffatto dal dolore» disse Eleonora, senza guardare nessuna di loro. Forse tentava di figurarsi quell'avvenimento come se fosse stata presente; forse cercava di immaginare la sofferenza di Antonio, nel caritatevole intento di sottrargliene una parte, per quanto piccola. Stringeva tra le mani un fazzoletto orlato di pizzo e solo raramente lo abbandonava sulle gambe, per sistemare una ciocca ribelle che le cadeva sulla guancia insieme alle lacrime.

Nel pomeriggio si seppe che il duchino era stato sottoposto a un delicato intervento, necessario ma gravemente invalidante. Dapprima le damigelle pensarono all'amputazione di una gamba o di un braccio, familiarizzando con l'idea di vederlo da quel momento menomato. Fu il Provo ad informarle che gli effetti dell'operazione non sarebbero stati visibili, ma le ragazzine non capirono.

Quando lo videro per la prima volta dopo due settimane, tornato in salute, si stupirono di non riscontrare differenze tra il prima e il dopo: gli ematomi erano stati riassorbiti, il colorito era tornato sano grazie alla dieta. Il viso era ancora un po' smagrito, ma non più emaciato. Aveva solo un'espressione diversa; un'espressione di smarrimento e di insoddisfazione, quasi di vergogna. Si esponeva ai cortigiani di malumore, come se temesse il loro giudizio, o peggio, la loro derisione. Galatea non sapeva perché, eppure ogniqualvolta le capitasse di vederlo provava una stretta al cuore, una compassione innata.

Solo in un secondo momento si seppe qualcosa di più: l'operazione c'era stata e aveva agito su una parte del corpo gravemente lesa e potenzialmente mortale, se incancrenita. Si era dovuta compiere una scelta ed era stata presa nientemeno che dal duca in persona: gli avevano sì salvato la vita, ma lo avevano condannato a non avere discendenza.

Figlia di mercanteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora