Marzo 1670 pt. 3 **

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Le avevano tagliato i capelli corti perché, a detta loro, preveniva i pidocchi. Ora, quando distrattamente si passava una mano sul collo, fremeva di nostalgia e rabbia. Non erano ancora due settimane e già odiava tutto di quel palazzo: ogni camera, ogni servo e più di tutti la padrona, che non mostrava minimamente di tenere a lei e di risparmiarle i lavori più umili. Galatea vedeva lesa la propria dignità di duchessina a ogni colpo di scopa che menava contro il pavimento, a ogni straccio zuppo che doveva strofinare sul marmo freddo su cui, un attimo dopo, qualcuno avrebbe camminato con le suole sudice di fango. Fuori pioveva, pioveva da giorni e non accennava a smettere. Il mare era gonfio, livido e, a guardarlo dalle finestre della soffitta, metteva spavento. Ululava così forte che lo si sentiva gemere sferzato dal vento e non bastavano i muri a preservare il silenzio. Non era uno luogo sicuro; ecco cosa pensava mentre spolverava il camino di un grande salone mai utilizzato. Non era un luogo sicuro, eppure l'abate l'aveva rassicurata più volte sulla bontà di coloro che le avrebbero offerto rifugio. Forse era stato ingannato, ma poco contava, dato che si trovava costretta a rimanere.

Da voci di corridoio era venuta a sapere che Ottavio era a palazzo e stava bene e questo l'aveva rincuorata; ma quel mare così scuro non prometteva nulla di buono.


«Dunque è arrivata l'ora di salutarci, nipote» risuonò vigorosa la voce di Ferdinando. Ottavio si abbandonò allo sconforto, trovandosi completamente solo e senza possibilità di fuga. Era nel proprio salotto, ignaro, fino a un attimo prima, dell'imminente arrivo dello zio. Vedendoselo apparire davanti, il duchino era sbiancato, aveva poggiato il libro che si stava rigirando tra le mani ed era rimasto fermo sul posto, in attesa.

«Eccellenza» salutò con un cenno della testa, per poi mettersi a sedere su un divanetto, sentendosi debole e vulnerabile.

Il principe camminò in modo teatrale sulle scarpe all'ultima moda, con un tacco che avrebbe slanciato anche uomini di età più matura e di fisico meno aitante. Perché Ferdinando aveva mantenuto negli anni una forma invidiabile grazie a una dieta attenta e a una esasperata cura della persona. Si truccava ogni mattina, indossava una di quelle parrucche in voga in Francia, aveva riccioli lunghi sulle spalle e sulla schiena. In tanti lo associavano al re Sole; Ottavio, però, l'avrebbe volentieri paragonato al diavolo, per cui pompa e vanità erano attributi tradizionali. Si trovava in una situazione, per di più, che gli favoriva oltremisura quel parallelo. Il suo volto contratto non dovette celare troppo bene i suoi pensieri, ma d'altro canto aveva abbandonato da tempo il proposito di assecondare lo zio.

«Ebbene sì, – continuò il principe, lustrandosi un anello vistoso contro la giacca di un color verde smeraldo – Parto, finalmente. Tornerò ad occuparmi dei miei affari, ora che le acque si sono calmate. Vostro fratello potrà impiantare il processo anche senza il mio consiglio»

Ottavio si trattenne dall'aggredirlo verbalmente e sibilò: «Vedo che non dubitate della mia colpevolezza»

«A volte non è questione di colpevolezza, ma di calcolo. Ritengo che sia giunta l'ora di mettere ordine nella dinastia per il bene del ducato. Capita regolarmente il momento di potare i rami infruttuosi e voi siete uno di questi, disgraziatamente. Mi auguro anche che la vostra vedova sia al corrente della vostra situazione. Sarebbe spiacevole renderle noto il vostro destino qualora questo si fosse già compiuto» osservò Ferdinando, con un sorrisetto bieco.

Ottavio sentì mancare il respiro, ma non si fece impressionare: «Siete voi che, così pare, sapete fin troppo, ancora più dei giudici che stanno esaminando le prove in gran segreto, come prescrive la legge. Mia moglie, comunque, sa quanto basta»

«Qualcuno dovrà pensare a lei» lo incalzò, ignorando le sue insinuazioni.

«Ho già disposto»

Figlia di mercanteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora