L'abitacolo era stretto, spartano, a malapena bastante per un uomo adulto della statura del duchino. Due cavalli, regolarmente cambiati ad ogni stazione di sosta, galoppavano sotto la frusta dell'unico cocchiere che Ottavio aveva deciso di assoldare. L'affitto era commisurato alle poche sostanze che gli erano rimaste; non erano contemplati momenti di riposo, ad eccezione di qualche bicchiere di vino scadente di tanto in tanto, insieme a un poco di pane e salame.
La sua mano scivolò, quasi per caso, nella tasca della giacca; sfiorò con la punta delle dita una tela più delicata, ma non ci badò. Guardò superficialmente la distesa di dolci colline che affiancava la strada: avrebbe volentieri ordinato una sosta, per sgranchire le ossa dagli scossoni. Il cocchiere, di certo, non se ne sarebbe lamentato. Miglia e miglia più avanti, però, lo aspettava un appuntamento di vitale importanza, cui non avrebbe potuto mancare, pena la perdita di una delle poche protezioni.
Le montagne rimanevano sullo sfondo, azzurre e aguzze come denti contro il cielo. Là, da qualche parte, c'era Galatea; o forse no, forse era già partita a propria volta verso la valle, con una promessa di sicurezza che avrebbe dovuto placare per un po' i suoi timori. Sentì stringersi il cuore, Ottavio, al pensiero che sarebbe stata sola, probabilmente mai del tutto persuasa che la sua missione si sarebbe risolta bene; era lui stesso il primo a dubitare del proprio ritorno.
Galatea era vestita di nero la mattina della partenza: lasciava il monastero con pochissimi bagagli, perché il di più era per definizione superfluo. Si limitò a raccogliere i propri gioielli in un piccolo scrigno che raccomandò a Maria di nascondere bene, a preparare una cassetta di abiti sobri e ordinari e di biancheria pulita. Presenziò alla messa nella cappella e poi, sfilando con discrezione nei corridoi, riuscì ad arrivare a una piccola vettura senza che gli ospiti se ne accorgessero. Ad aspettarla c'era l'abate, che l'avrebbe accompagnata personalmente per un breve tratto, prima di congedarsi per sempre da lei. Alcuni monaci assistettero dal confine del chiostro, separati da una grata in ferro battuto; li salutò con gratitudine chinando leggermente il capo e quelli la benedissero. Quindi montò in carrozza seguita dal giovane abate, ma nessuno osò sorridere e nemmeno mormorare della loro intimità. Sedettero uno di fronte all'altra, lei dalla parte del cavallo, lui contro la parete di fondo. A un segnale convenuto, il cocchiere schioccò la frusta e l'animale, docilmente, si avviò a percorrere i non facili sentieri della montagna. Mentre scendevano silenziosi, duchessina e abate si scambiarono diversi sguardi di incoraggiamento e stima reciproca; ma, per la maggior parte del tempo, Galatea si voltava per spingere i propri occhi sempre più in là dell'orizzonte, nel folle e vano tentativo di indovinare dove fosse Ottavio in quel momento.
Chiuse il pugno e lo trasse fuori dalla tasca della giacca, stringendo forte un fazzoletto bianco. Non ricordava di averne riposto uno proprio lì e la circostanza gli parve sospetta: aprì la mano, accarezzò la stoffa finissima, candida e profumata e scoprì due piccole iniziali ricamate: G e O, Galatea degli Orsi, perché si trattava di un fazzoletto che sua moglie possedeva da nubile. Ne era certo perché gliel'aveva visto più volte e, in quel momento, realizzò che era stata lei a nasconderlo lì quando l'aveva abbracciata prima di lasciare la loro camera. Risentì la sua pelle sotto le dita, le sue guance morbide ai baci. Strinse ancora il fazzoletto, mentre gli occhi già pizzicavano di lacrime, e lo portò al proprio viso, sfiorandolo delicatamente. Ne respirò il profumo avidamente e infine lo premette contro le labbra, baciandolo più e più volte. Non era come baciare lei, ma avrebbe accettato il compromesso. Quel fazzoletto era l'unica cosa che gli era rimasta di lei.
«Cosa cercate?» domandò l'abate, osservando Galatea con sguardo complice.
Lei, sospirando, si rimise composta, appianò le pieghe del vestito e, ad occhi sempre bassi, rispose: «Sarebbe più corretto dire "chi"»
Anche l'abate abbassò il volto, ma la sua voce mantenne il tono vivace: «Non dovreste sfidare il futuro. Lo dice anche il poeta Orazio»
Corrugò le sopracciglia e domandò di più; lui le sorrise: «Accontentiamoci del presente, piuttosto che perderlo di vista per indagare un futuro indefinito che non conosceremo mai veramente»
«Il mio presente è piuttosto avaro di gioie, padre» obiettò.
«Ma è l'unico momento in cui potete agire: il passato non si può cambiare, il futuro non si può conoscere. E qualora il futuro diventasse presente, saremmo troppo occupati a rammaricarci di un fatto accaduto o a preoccuparci per qualcosa che è di là da venire. Il poeta ha ragione: guardate fuori dal finestrino proprio ora. Vedete campi, vedete il ciglio roccioso della strada... se ora noi fermassimo la carrozza, potreste cogliere uno di questi fiori o scegliere di portare con voi uno di questi sassi. Mi capite?»
«Capisco cosa dite, ma non cosa vogliate dire»
L'abate ammiccò: «Bene: ora fate caso a questo. Io posso dirvi, perché li ho visti, che molto indietro c'erano fiori molto più colorati di questi; e pietre più pure e più rare. Ma voi non l'avete notato perché eravate tesa a guardare alle vostre spalle, verso la strada che vi aspettava, verso qualcosa che desiderate ma che, ora come ora, non potete raggiungere»
«Continuate»
«Se adesso, proprio adesso voi decideste di volere dei fiori, non vi rimarrebbero che due possibilità: cogliere quelli che avete a portata di mano o aspettare di trovarne di migliori più a valle. Ma qual è il rischio?»
Il sorriso di Galatea tinse di amara consapevolezza il suo viso mentre rispondeva: «Che io disdegni ciò che ho a favore di qualcosa che non ho la certezza di trovare»
«Molto bene, Altezza. La nostra vita è proprio come il vostro viaggio in questa carrozza: il sentiero è la vita stessa, ha un punto di partenza e un punto di arrivo. È percorso da molti viandanti, le strade si incrociano, capita che dove ne finisce una ne cominci un'altra, capita che due percorsi condividano un tratto di strada per poi dividersi. Ma sapete, in realtà, cos'abbiamo in comune noi tutti pellegrini? Noi procediamo all'indietro, come i gamberi: viviamo il presente che è attorno a noi, vicino, quasi sempre nitido; vediamo il passato che è il tratto già percorso, anche se a volte non è più così facile distinguere ogni cosa; ciò che non conosciamo è ciò che ci aspetta, perché sta dietro di noi, dove non abbiamo occhi per vedere e dove le nostre mani non possono arrivare, non ancora»
Uno scossone, poi la strada si fece meno dissestata. Ottavio alzò gli occhi, sporgendosi leggermente fuori dal finestrino: la capitale non era più così distante, ormai. Ciononostante, in pochi avrebbero potuto riconoscerlo. Si sarebbe spacciato per un ricco mercante o per un nobile decaduto: le sue condizioni, d'altronde, non lasciavano sospettare altro. A un giorno di viaggio dalla città avrebbe incontrato la scorta che suo zio Giovanni Maria gli aveva promesso nella lettera di tre giorni prima. A suo dire, erano già in un'osteria sulla strada ad aspettarlo. Li avrebbe raccolti attorno a sé, raccomandando di mantenere un basso profilo, e sotto la loro custodia avrebbe raggiunto il palazzo. Da quel momento tutto sarebbe precipitato. Strinse il fazzoletto alle labbra per l'ennesima volta, poi lo piegò accuratamente e lo ripose in un taschino interno, affinché fosse al sicuro.
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Figlia di mercante
Historical FictionSeicento, epoca buia, epoca di sospetti, di epidemie, di guerre. Ma anche secolo della musica, del barocco, dell'amore passionale. Due sfaccettature che segnano la vita di Galatea dalla nascita alla morte. Racconto la sua storia come me la racconta...