Aveva imparato a maneggiare talmente bene la scopa che anche i topi delle cantine avevano cominciato a portarle rispetto. Quasi gioiva di tali successi, ma si ricordava subito, e con amarezza, di trovarsi lì contro la propria volontà, e di stare svolgendo mansioni che non erano le sue. Tuttavia, inevitabilmente, si era abituata ai nuovi ritmi nella prospettiva di rendersi più piacevole un soggiorno obbligato in attesa di poter rivedere Ottavio. La stanchezza, talvolta, si faceva sentire: le gambe le dolevano, i piedi erano un po' gonfi, ma negli ultimi giorni cominciava a sentirsi meglio e i malesseri mattutini, che lei addebitava al cibo cattivo e al lavoro, si presentavano sempre più raramente. Solo un dettaglio la lasciava interdetta, ma non aveva mai tempo né voglia di farci caso e forse, di diceva, era meglio così. Voleva tenere vive le speranze che nutriva verso l'avvenire e per questo non si permetteva mai di cedere al pessimismo: prima o poi, la vecchia l'avrebbe lasciata andare. Ancora meglio, prima o poi qualcuno l'avrebbe trovata e riconosciuta e tratta fuori da quella situazione che, iniziata con lo scopo di proteggerla, ora la stava estenuando. Una volta libera, allora sì che Isabella De Spini avrebbe imparato a trattare con lei: troppo facile tiranneggiare su una fanciulla sola e spaventata quale era lei all'arrivo alla Mezzaluna. Più di tutto, però, sapere che Ottavio era al sicuro, riabilitato e riaccolto a corte, la rendeva euforica e impaziente.
Un topo guizzò da dietro un sacco e corse davanti a lei, schivando per un soffio la scopa di saggina che gli stava piombando sulla testa. Quando aveva ucciso il suo primo topo, aveva urlato dallo sconcerto; era subito arrivato il gatto, aveva azzannato la preda ed era corso in un angolo lasciandola disgustata. Ora non ci faceva più nemmeno caso. Quando era sola, si divertiva a chiamare il felino con il nome della padrona, ossia Donna Isabella, benché fosse maschio, perché riteneva che tra i due sussistesse un ridicolo paragone: come il gatto amava gustarsi egoisticamente i topi che altri ammazzavano – non che lei volesse dividere il premio, sia ben chiaro –, così la signora del palazzo se ne stava seduta sui divani aspettando di godere del lavoro degli altri, e del suo in special modo. Sbuffò, riprendendo a spazzare con energia, sollevando una nuvola di polvere che la fece tossire. Qualcuna delle sue colleghe le era risultata simpatica e cordiale, con il passare del tempo. Altre, invece, erano di una natura troppo invidiosa e troppo pettegola per piacerle, e le loro spalle erano le sistemazioni preferite di Discordia, che le aveva già dato del filo da torcere. Tutto sommato, il loro mondo era piccolo come il raggio del loro sguardo e non si spingeva al di là di ieri e di domani. Non importava loro la condizione del ducato, dell'Italia o dell'Europa: si ritenevano fortunate di quello che avevano nell'oggi e speravano altrettanto per uno spazio di tempo che sembrava ragionevole, ossia qualche mese e non di più. Passato un mese, anche le loro aspettative si spingevano un mese più in là. Galatea si fermò un momento, per lasciare che la polvere si posasse di nuovo a terra, prima dell'ennesima spazzata; proprio in quel frangente, la porta della cantina si aprì di scatto e un'ombra si proiettò all'interno, lunga e sottile.
«La signora ti vuole, Teresa»
Lasciò la scopa non senza una punta di fastidio, perché solitamente, quando la padrona la chiamava, era per imporle un qualche tipo di umiliazione. Salì ai piani nobili, si armò di pazienza e si introdusse nel salottino dove Donna Isabella passava oziosamente il suo tempo in giornate sempre uguali.
«Uscite tutti, devo parlarle a quattr'occhi» fu il suo modo di accogliere la serva. Il suo sguardo aveva una sfumatura diversa dal solito. Quando l'ultimo paggio ebbe chiuso la porta dietro di sé, Isabella la fece avvicinare con un cenno. Galatea le venne di fronte, fermandosi impettita e inespressiva.
«Devo darvi le ultime notizie. E siccome non sono belle, preferisco darvele di persona»
– Fine aprile 1670 –
Sembrava una banale mattina di fine aprile; una di quelle con il cielo grigio e premuto contro la terra, con un'aria così densa da appiccicarsi alla pelle e ai vestiti. Un ottimo preludio per un temporale. Quella mattina il duca venne svegliato alle prime luci del giorno e, mentre gli veniva quasi gettata addosso una vestaglia da camera, un maggiordomo bofonchiava qualcosa di incomprensibile riguardo a suo fratello Ottavio.
Antonio non era persona mattiniera ed essere destato con tale rudezza contribuiva ad indisporlo ancora di più; per questo nessuno si stupì che non avesse ascoltato bene, così come venne scusato anche del modo scostante con cui trattò chiunque gli si avvicinasse. Poi, muovendosi tra una folla sempre più massiccia assiepatasi per saziare la curiosità, afferrò una parola che prima, evidentemente, gli era sfuggita.
«Sangue?!» fece eco, senza sapere nemmeno chi avesse parlato, dato che in pochi riuscivano ancora a tenere la bocca chiusa.
«Sangue, Vostra Grazia! Sangue!» esclamò il maggiordomo balbuziente di poco prima e, osando prendere il proprio signore per il braccio, lo costrinse a stargli dietro, mentre ricapitolava: «Stanotte... Una tragedia, Vostra Grazia, un vile tradimento... Dovete vedere, dovete vedere!»
Il duca si accorse solo in un secondo momento di essere circondato dalla propria guardia personale. I cortigiani venivano tenuti a distanza dalle picche dei soldati e, quando l'irruenza superava i limiti consentiti, una spinta decisa non si negava a nessuno. Così, nell'agitazione generale, Antonio imboccò il corridoio su cui si affacciava l'appartamento di suo fratello. La porta si apriva all'estremità opposta e, generalmente, era deserta, poiché non portava da nessun'altra parte che all'appartamento del duchino e pochi avevano qualche valida ragione per andarci. In quel momento, però, c'era agitazione anche lì; Antonio aguzzò la vista e affrettò il passo. Cinque o sei persone si muovevano tra dentro e fuori e sembravano molto nervose.
«Cos'è accaduto?» borbottò tra sé, non riconoscendo tra di essi il volto familiare che cercava ormai spasmodicamente. Nessuno era abbastanza vicino da udire le sue parole, perciò rimase all'oscuro di tutto finché non fu arrivato alla meta.
Un uomo, una guardia della scorta, giaceva morta in una pozza di sangue. Il duca lo guardò sgomento, gettandosi subito oltre la soglia, nonostante lo richiamassero indietro. All'interno c'erano impronte insanguinate cui si aggiunsero anche le sue, perché – se ne rese conto dopo – sarebbe stato impossibile entrare nell'appartamento senza calpestare il sangue della guardia. Le impronte si dirigevano dritte alla camera da letto e lui le inseguì senza indugio; ciò che trovò oltre la porta socchiusa gli mozzò il respiro.
La camera era a soqquadro. Il letto era quasi irriconoscibile: le cortine strappate, i cuscini deformati e spruzzati di sangue, così come la testiera, che portava ancora i segni di un'arma affilata. E il materasso, da cui erano state tratte le lenzuola e la coperta, era di un colore tanto scuro da inorridire. Un'altra vasta traccia di sangue era sul tappeto a lato del letto. Una lunga striscia rossastra si snodava sul pavimento.
La ricostruzione fu sufficientemente semplice: l'assassino, fingendosi una guardia della scorta, aveva prima ucciso il collega di turno con due fendenti mortali, quindi aveva forzato la serratura, si era introdotto furtivamente nella camera da letto e aveva colpito il duchino, che però era riuscito a rotolare sul pavimento e a opporre una strenua resistenza. La quantità di sangue presente, però, suffragava le ipotesi peggiori: il duchino, quasi sicuramente, non era sopravvissuto. Il suo aggressore doveva essersi servito delle lenzuola e della coperta per avvolgere il corpo e trasportarlo altrove, per arrecare ulteriore offesa al morto e alla sua famiglia.
«Nessuno ardisca riferire a mia madre dell'accaduto. Prima di tutto, voglio che venga ritrovato il cadavere di mio fratello» proferì Antonio con voce cupa e soffocata. Non disse nient'altro.

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Figlia di mercante
Historical FictionSeicento, epoca buia, epoca di sospetti, di epidemie, di guerre. Ma anche secolo della musica, del barocco, dell'amore passionale. Due sfaccettature che segnano la vita di Galatea dalla nascita alla morte. Racconto la sua storia come me la racconta...