Giugno 1669

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Alla fine la campana aveva scoccato i rintocchi del lutto. Una cappa di silenzio era piombata sul castello, come se spegnendosi la vita di un grande uomo che lì era vissuto, tutto il creato fosse diventato muto e sordo e cieco. Poi il mormorio delle preghiere era ricominciato con un tono più intonato al pianto funebre.

Si era pregato anche prima; erano giorni, anzi, che i preti, i frati, i cappellani chiamavano il popolo a raccolta, indifferentemente dalla condizione, suonando le stesse campane che adesso diffondevano nel ducato - messaggeri più rapidi dei cavalli - la notizia che il duca era morto.

Galatea era nella cappella ducale quando era avvenuto il fatto. La famiglia del duca aveva fatto intendere di non desiderarla nella camera del sovrano in agonia e così Ottavio le aveva consigliato di inginocchiarsi in prima fila, con il velo della penitenza calato sul viso e le mani strette attorno al rosario di perle che lui stesso le aveva porto.

"Un triste dono di nozze", così l'aveva definito. E lei aveva seguito le sue indicazioni, ignorando i mormorii meno santi delle nobildonne assiepate dietro di lei. Certo era la persona più chiacchierata nel palazzo, ma a lei spettava il posto in prima fila e questo importava ad Ottavio: che i cortigiani capissero e applicassero il protocollo nei confronti della moglie di un duchino.

Non sapeva quanto tempo era rimasta a bisbigliare avemarie, paternostri e gloria senza interruzioni, se non quelle necessarie a respirare. Erano preghiere sincere le sue, perché aveva guardato gli occhi di suo marito e lo aveva visto perduto. Erano preghiere per l'anima del duca, che era stato un uomo buono ma che aveva accumulato molti peccati - quale governante è immune dal peccato? Ma erano preghiere per lui, per Ottavio, perché sarebbe rimasto privato dell'unica guida che avrebbe potuto indicargli la strada da percorrere per non cadere né nelle fauci dei leoni, né nella buca dei serpenti. Ed erano preghiere per sé, Galatea, che si trovava in una situazione troppo ambigua, troppo delicata per una ragazzina di diciotto anni cresciuta al riparo da qualsiasi responsabilità che non fosse un ricamo sgraziato o un capitolo di studio personale.

Aveva sentito la Morte, quando era venuta a prendere il duca; aveva sentito il suo passaggio, ma aveva tenuto gli occhi chiusi per non vederla. Era passata una manciata di minuti, poi un uomo era entrato nella cappella e aveva annunciato: «Il duca è morto. Viva il duca!»

Frase di rito, per quanto sgarbata nei confronti del defunto. Un sovrano scalzato dal suo trono non è che un altro dei milioni di mortali che non hanno più nulla da dire ai vivi. Non avrebbe potuto più scagliarsi contro gli avversari, rimproverare i cortigiani dai costumi scaduti nella volgarità, non avrebbe, in breve, provocato fastidi a nessuno. Si poteva parlare di lui ad alta voce ora, riconoscendo i limiti della visione chiusa che aveva dei rapporti umani; ma era anche più facile declamarne i meriti, perché sostanzialmente era tutto morto con lui. Parlare del suo governo era come parlare del governo di qualsiasi altro sovrano defunto, lontano o vicino.

C'era un duca bambino ora: una bambola, l'avrebbero chiamato, ma questo non si poteva ancora dire di lui, perché era vivo. Grandi sorrisi o grandi lacrime, a seconda che si parlasse di un'ascesa o di un decesso. Maschere intercambiabili, bastava avere l'accortezza di non confondersi, o si sarebbe passati per matti.

Galatea non sollevò il velo dal viso finché non fu sola in camera. E quando fu sola, lo sollevò solo per piangere liberamente. Ma per chi piangesse, questa volta, non lo sapeva. Piangeva a dirotto, senza potersi porre freno, e si sentiva rigenerata da quel pianto, come una fenice che risorge dalle proprie ceneri. Cominciava solo allora una vita nuova, un corso nuovo degli eventi. Le novità non sono sempre positive; e dunque era anche un pianto di disperazione, che lacrima dopo lacrima sembrava sottrarle una parte di sé disperdendola sul pavimento. Come se nulla contasse più, se tutto fosse destinato a sciogliersi lì e allora.

Ottavio aprì la porta senza bussare e rimase sulla soglia per un attimo ad osservarla.

«Galatea?» sussurrò alla fine, decidendo di avvicinarsi. Galatea lo guardò solo dopo che lui l'ebbe chiamata. I suoi occhi erano ancora più smarriti di quanto non fossero stati durante il loro ultimo colloquio; restò seduta, forse per distrazione, forse intenzionalmente. Ottavio era freddo come il marmo, l'espressione granitica di un dolore composto.

«E' morto, dunque?» domandò con un filo di voce.

«E' morto» confermò lui.

«Ha sofferto ancora molto prima di spirare?» incalzò lei.

Ottavio si accostò al tavolino al centro della stanza e versò dell'acqua in una coppa, quindi ne bevve un sorso: «Ha sofferto fino all'ultimo respiro, nonostante i decotti dei medici e le preghiere di mia madre; che più che preghiere erano deliri bisbigliati a mani giunte» rispose.

Galatea sobbalzò: «E' in questo conto che tenete gli affanni della povera anima di vostra madre?»

Ottavio le dedicò uno sguardo gelido: «I deliri di mia madre non erano altro che questo: deliri. Le vostre erano preghiere, le mie e quelle di mio fratello Antonio. Ma mia madre ha perso la luce della ragione, affila i pensieri su sentieri che si perdono nei meandri della sua mente distrutta dal più atroce dei delitti che una donna possa sperimentare»

«Siete arrabbiato perché vostro padre non vive più? E' questo che vi fa parlare in questo modo?» attaccò Galatea, incredula di fronte alla sua freddezza.

«Io sono arrabbiato per la morte di mio fratello. Chi l'ha ucciso ha aggravato gli ultimi giorni di mio padre, che s'è visto strappare un figlio sano e lasciare un figlio menomato e un figlio prete, come dicono tutti in questo maledetto palazzo. Che lo dicano, che parlino chiaro per una volta. Forse lo pensate anche voi, dopotutto. E non vi biasimo, visto che sto avvalorando queste voci. Ma vorrei che lo si dicesse ad alta voce. Un duca bambino con due eredi incapaci; quale strazio s'è abbattuto sulla mia famiglia»

Ottavio crollò seduto su una poltroncina, perdendo in un colpo tutta la tenacia di un attimo prima. Era Galatea, ora, quella che si ergeva come roccia incrollabile; si era alzata in piedi mentre lui parlava e aveva seguito le sue parole come se le vedesse proiettarsi fuori dalle sue labbra. Non aveva nulla da dire per lenire la sua frustrazione, non aveva il potere di curare magicamente le sue ferite. Aveva paura, però, ed era questo che involontariamente gli trasmetteva stando ferma immobile a fissarlo.

Ottavio si massaggiò la fronte; quando riaprì gli occhi, una lacrima ruzzolò sulla guancia. Lui subito l'asciugò nel palmo della mano e serrò nuovamente le palpebre, per opporsi al pianto.

«Piangete, se vi fa stare meglio» fu l'unica cosa che Galatea si sentì di dirgli. Fu come se non l'avesse nemmeno ascoltata.

Figlia di mercanteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora