3 - jorōgumo

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- Uno... -

Cosa sono le emozioni?

- Due. -

Da dove vengono?

- Tre... -

È possibile imparare o provarle o sono qualcosa di innato?

- Quattro... -

Pur sapendo perfettamente dell'esistenza di risposte scientifiche a queste domande, di fatto la ragazza ancora non era riuscita a farsene un'idea.

- Cinque. -

Eppure il suo psicologo le diceva sempre che anche lei le provava.

- Sei. -

Ma lei riteneva che non fosse così.
Tutto ciò che lei sentiva era una sensazione di vuoto, una voragine. Come se avesse un buco nero situato esattamente al centro stomaco.

- Sette... -

Era certa che fosse quello il posto dove si sarebbero dovute collocare le sue emozioni. Proprio lì dentro, a colmare quel vuoto.

- Otto. -

Non riuscire a comprendere le emozioni, però, non significava che lei non fosse capace di stare bene o male.
Anzi, si può dire che quelle due sensazioni fossero tutto di cui era in possesso.

- Nove... -

Quando la voragine si ingigantiva e le saliva fin su per la gola, impedendole di parlare e a volte perfino di respirare bene... Quando la vista le si appannava e sentiva quel buco nero agitarsi dentro di lei.
Quelli erano i momenti in cui si sentiva male.

- Dieci. -

E chiaramente faceva di tutto per evitare di sentirsi in quel modo.

- Undici... -

Così quando sentendo le parole di qualcuno, o assistendo a una determinata scena, iniziava a sentire uno di quei "sintomi", subito chiudeva occhi e orecchie e si voltava dalla parte opposta, allontanandosi finché quella sensazione non fosse passata.

- Dodici. -

Sentirsi bene, invece?
Quello era ovviamente ciò che preferiva.

- Tredici. -

In quei momenti si sentiva come se quel vuoto si fosse, anche se solo in parte, colmato. Il cuore prendeva a batterle rapidamente e si sentiva così piena di energie da convincersi di poter fare qualsiasi cosa.

- Quattordici... -

Il suo obbiettivo era quello di sentirsi sempre bene.

- Quindici. -

Così aveva scoperto che esistevano determinate situazioni durante le quali riusciva a sentirsi in quel modo.

- Sedici. -

Ad esempio quando qualcosa suscitava il suo interesse e le capitava di pensare "questa cosa mi piace".

- Diciassette... -

Parlandone al suo psicologo, quello aveva sorriso e le aveva annunciato che quelle erano proprio emozioni.

- Diciotto... -

Ma lei non ne era affatto convinta.

- Diciannove. -

Perchè aveva sentito dire che le emozioni erano molte, mentre per lei esistevano solo quelle due strane sensazioni.
Il sentirsi bene e il sentirsi male.

- Venti. -

Allora l'uomo le aveva detto che la sua idea di "sentirsi bene" poteva essere associata alla "felicità" o al divertimento, mentre il "sentirsi male" alla tristezza.

- Ventuno... -

Lei aveva accolto con scetticismo questa sua osservazione.

- Ventidue. -

Alessitimia.
Questo è il nome che lo psicologo aveva annunciato ai suoi genitori dopo i primi incontri con la sedicenne.

- Ventitrè... -

Ovvero l'incapacità di riconoscere le proprie emozioni come tali e al tempo stesso di provare empatia per il prossimo.

- Ventiquattro. -

Sentire quella definizione ebbe effetti contrastanti nei due coniugi e nella figlia.
Se il riconoscere che la diagnosi dello psicologo fosse senza ombra di dubbio corretta portò nei due grande sgomento, al contrario diede alla sedicenne uno strano senso di pace.
Si era sentita, forse per la prima volta in tutta la sua vita, davvero bene.

- Venticinque... -

Forse perché adesso aveva qualcosa da poter incolpare.

- Ventisei. -

Perchè adesso poteva rispondere "non è colpa se sono malata" al posto di uno "scusa" incerto, quando la gente le rivolgeva accuse del tipo "come puoi dire cose del genere? Non hai un cuore?" o "possibile che non possiedi un briciolo di umanità?!".
E via dicendo.

- Ventisette. -

Perchè se trovava difficoltà già solo nell'identificare le emozioni che provava lei stessa, le era invece davvero impossibile comprendere quelle del prossimo.

- Ventotto. -

Era per questo che si era fatta crescere la frangia fino a coprirle gran parte del viso ed era per questo che i suoi occhiali avevano la montatura così spessa da rendere impossibile distinguere gli occhi che vi erano nascosti dietro.

- Ventinove... -

Perchè sollevare e abbassare gli angoli delle labbra quando lo facevano gli altri era facile, ma far sorridere e piangere gli occhi in base alla situazione nella quale si trovava, le era semplicemente impossibile.

- Trenta. -

Ma in particolare trovava difficili le situazioni "tristi".
Perchè se non ridi a una battuta non è un dramma, ma prova a non piangere quando piangono gli altri...

- Trentuno. -

Anche se solo vagamente, dal comportamento e dalle espressioni facciali, Saya riusciva a capire quando una persona si sentiva bene o male.
Ma trovava a dir poco inconcepibile l'idea che quando ad una persona capitava di sentirsi male, quella potesse desiderare di rimanere così per diverso tempo prima di voler tornare a stare bene.

- Trentadue... -

Per questo evitava di esprimersi quando le capitava di trovarsi in una di quelle situazioni dov'erano necessarie compassione e conforto.

- Trentatrè. -

Ma le era difficile rimanere in silenzio quando a sentirsi male erano persone alle quali, seppur a modo suo, teneva.

- Trentaquattro. -

Così nel tentativo di minimizzare il loro dolore, quel dolore che sapeva non sarebbe mai stata capace di comprendere, le capitava di dire qualcosa di fuori luogo, o di insensibile, quando invece il suo intento era stato proprio quello di far stare nuovamente bene l'altra persona.

- Trentacinque... -

Si potrebbero passare ore intere a parlare del disagio provocatole ogni singolo giorno dalla sua incapacità di provare empatia per il prossimo, o della sua visione del mondo "in bianco o nero".
Per questo parleremo di altro.
Ovvero di quella volta in cui Saya non si sentì nè bene, nè male, in cui il vuoto scomparve per lasciare spazio ad un misto di sensazioni contrastanti.
Di quell'unica volta in cui Saya, semplicemente, si emozionò.

- Trentasei... Oh, ma che continuo a fare? Tanto non cambierà nulla! -

Esclamò quel lunedì mattina prima di alzarsi di scatto, mettersi lo zaino sulle spalle e uscire per andare a scuola.

Abbandonate tre le pieghe delle coperte del suo letto, le gru di carta che la ragazza aveva appena costruito, osservarono impassibili il suo inconsapevole scoppio di rabbia.
Forse conscie, o forse no, del fatto che quel giorno Saya avrebbe realizzato il suo desiderio.

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