° sette °

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I suoi movimenti erano fluidi, come dell'acqua. Lo osservavo quasi come se stessi tentando di capire se fosse umano o no. Sì alzava leggermente sulle punte dei piedi per prendere qualcosa su uno scaffale alto e si fermava qualche volta a leggere gli ingredienti di qualche prodotto.

Probabilmente sarei stato capace di guardarlo in qualsiasi occasione, senza mai stancarmi. Il suo corpo minuto ti metteva alla prova, ti costringeva quasi a guardarlo.

«V-vieni spesso qui?» domandai quando sentii che quel silenzio si era fatto troppo insopportabile anche per me. Non pensai molto sulla domanda, cosa che invece avrei dovuto fare dal momento che dalle mie labbra uscì la più stupida tra le possibili. «Intendo, non ti ho mai visto qui, e vengo in questo supermercato da un bel po'.»

La mia lingua inciampava su sé stessa, sentendomi quasi di nuovo bambino alle prime prese con il linguaggio. Mi veniva difficile pronunciare suoni facili come le congiunzioni.

Il ragazzo era silenzioso, non parlava mai se non era strettamente necessario, come se temesse di scaricarsi. Il viso privo di espressione mi ricordava un sistema di “ultra risparmio energetico” e l'idea mi faceva leggermente sorridere.   «Mi sono trasferito da poco. Abito qui dietro.» rispose senza neanche voltarsi a guardarmi, e continuando a mettere cibo nel proprio carrello.

Annuii, spostando lo sguardo via da lui, costringendomi a farlo. Vagai in giro per il negozio con gli occhi, incerto sul cosa fare. «Capito...» dissi soltanto. Non mi piaceva quel tono che usava, svogliato, sembrava quasi lo stessi annoiando o altro, e speravo davvero non fosse così. Mi faceva sentire piccolo, come uno studente di asilo che tenta di dialogare con uno delle superiori, troppo bambino per poter essere ascoltato.

Ero sul punto di chiedergli come si chiamasse, quando voltandomi ancora verso di lui lo vidi infilare un dito nel colletto della camicia, tirandolo un po' come se gli mancasse il fiato.

Sentii immediatamente le guance rosse, anche se era un gesto così piccolo e innocuo. Deglutii, mentre continuavo a guardarlo muoversi sotto la camicia. Gli stava davvero troppo bene, e sentii in me una punta d'orgoglio quando pensai che era stato io a consigliargli quel modello da acquistare.

«Ti sta bene,» confessai prima di poter pensarci due volte sul dirlo o no, con una voce un po' più diversa. Lo dissi con leggerezza e allo stesso tempo della sicurezza, come se improvvisamente avessi trovato le parole migliori da dire - per una volta. Lo sguardo mi luccicava, quasi non trovando più niente di sbagliato in quello che ormai ero solito a pensare riguardo a quella figura di fronte a me. «La camicia, intendo.»

Il ragazzo si passò una mano nei capelli scuri. «Bé, se questo servirà a farmi assumere ne sono contento.» rispose con indifferenza, riportandomi alla dura realtà in cui quello pieno di sicurezza era lui. Si voltó verso di me, per la prima volta, e i suoi occhi quasi si incastrarono nei miei, «Ho avuto un colloquio di lavoro» specificó come se avesse letto la mia mente, confusa dalle sue parole «E sono un po' timoroso.»

Alzai un angolo delle labbra. Sembrava meno un duro quando ammetteva emozioni del genere. Era come se da un cubetto di ghiaccio fosse appena uscito un piccolo fiore dai colori chiari. Era quasi una sorpresa. «Cosa ti fa pensare di esser andato male?» domandai.

Ma lui non mi rispose. Forse perché ero stato troppo invadente, o forse perché lo annoiava continuare a parlare di lavoro. Forse erano entrambe le cose. Continuó a guardarmi, «Non ho capito come hai detto che ti chiami.» disse cambiando discorso. La sua espressione non era mutata, sempre seria, ma questa volta riuscivo a sentire qualcosa in più, anche se non avevo idea di cosa si trattasse.

Sperai davvero che non notasse il rossore sulle mie guance. Sapevo benissimo che non gli avevo mai detto il mio nome - anche se avrebbe sempre potuto leggerlo dalla targhetta della mia uniforme di lavoro -, ma mi sentii comunque felice quando me lo chiese.

Era come se mi stesse dicendo, in qualche modo, che quella non sarebbe stata l'ultima volta che ci saremmo incontrati. Magari anche senza bisogno di ricorrere alle casualità. «Jimin.» risposi, con un timido sorriso.

«Jimin,» ripeté lui. Il mio nome pronunciato da lui assumeva quasi un altro suono, diventava più bello, e sembrava quasi l'avesse decorato a suo piacimento e fatto suo. Pensai che era fatto per essere chiamato da lui. «Sono Min Yoongi.» rispose poi, allungando una mano verso di me.

La manica della camicia si stringeva intorno al suo polso, sottolineando la sua corporatura minuta. «Piacere di conoscerti.» dissi, spostando lo sguardo dai suoi indumenti fino ai suoi occhi.

Non stava sorridendo, ma in essi mi sembrava di leggere che fosse quasi contento che ci fossimo finalmente presentati. Ed io speravo che lui invece non fosse capace di comprendere gli occhi altrui, perché se fosse stato capace di sapere cosa mi stesse passando per la testa in quel momento, mentre i miei occhi ricadevano in continuazione sulla sua camicia, sapevo già che sarebbe stata la cosa più imbarazzante sulla terra.



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jimin e la purezza

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