chapter one.

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Megan Walker voice:

La  mia vita  negli ultimi anni era un totale schifo, forse lo era sempre stata, fin da bambina. Mio padre lavorava per una azienda che costruiva armi,era uno dei tanti operai. Quando l'azienda fu trasferita in Asia, migliaia di persone persero il posto di lavoro; mio padre era uno di quelli.Dopo il licenziamento, si diede all'alcool e al gioco d'azzardo. La parola lavoro era scomparsa dal suo vocabolario.Era sempre depresso. Mia madre presa dall'esasperazione scappò via, con un altro uomo, lasciando la sua unica figlia, io Megan Walker, sotto la sua tutela. Mi ero presa cura di mio padre, di giorno andavo a scuola come ogni normale adolescente, di pomeriggio lavoravo in un bar per un amico di famiglia. È così è stato, fino ai miei ventuno anni. Avevamo un mutuo da pagare e a stento riuscivamo a mangiare o a pagare le bollette. In più i debiti di gioco di mio padre non facevano che aumentare i problemi e spesso ci ritrovavamo minacciati da qualche pazzo in cerca di soldi. Io non riuscivo a sostenere quel ritmo, non volevo vivere la mia vita in quel modo. Era troppo per una come me. E ogni notte pensavo di scappare, di seguire l'esempio di mio madre. Ma poi, guardavo mio padre così fragile e indifeso, e finivo per restare in quell'inferno. Nonostante la mia  tragica e disastrata vita, gli volevo bene. Di notte, papà Bill ancora mi rimboccava le coperte e a ancora mi augurava sogni d'oro. Io non potevo abbandonarlo. Ma non potevo restare in quella situazione, non si poteva vivere in quel modo. Mia madre ogni tanto mi scriveva, mi mandava qualche cartolina insieme a qualche banconota. Io non avevo mai risposto, mi faceva pena. Jade, mia madre, viveva a Toronto con il suo compagno, faceva la bella vita e non doveva preoccuparsi di arrivare a fine mese. Non si preoccupava delle condizioni pessime in cui aveva lasciato sua figlia. La verità è che non possiamo fidarci di nessuno, tutti in un momento o l'altro sono pronti a pugnalarci alle spalle. Viviamo circondati da serpenti velenosi, bisogna prenderli per la testa e fargli capire chi è che comanda.

Un giorno ero di ritorno da lavoro, avevo appena finito il mio turno al bar. Non avevo un auto, nonostante avessi la patente da anni, quindi tutte le sere ero costretta a prendere un autobus per ritornare a casa. Non abitavo in una zona degradata, ma negli ultimi anni, nelle periferie di Malibu, Los Angeles, si era spesso vittime di violenza o rapine da parte di alcuni gruppi di teppisti. La nostra era una casa piccola, ridotta anche abbastanza male. Ma non mi importava, perché per me era un posto magico, aveva una vista meravigliosa sul mare che la migliorava del tutto. Il mare, la spiaggia, il surf  o nuotare, erano l'unico lusso della mia vita. Quando l'autobus si fermò a pochi isolati da casa mia, vidi fuori la mia abitazione un auto, la conoscevo troppo bene,era stata li già altre volte. Subito allungai il passo preoccupata per mio padre. Quel passo veloce si trasformò in una corsa disperata. Percorsi le scale della veranda e aprii la porta urlando il nome di mio padre. Quando era piccola lo chiamavo papà, ma poi ho cominciato a chiamarlo per nome, Bill, si era creata molto ostilità tra noi due. Trovai mio padre a terra, in cucina; naso sanguinante e lividi su ogni parte del volto, lo avevano massacrato di botte. I suoi aguzzini era li, volevano soldi, ma la verità era che non avevamo neanche un dollaro, niente di niente. Quella storia andava avanti da quasi un anno.

"Megan scappa, va via" urlò cercando di mettere in salvo la sua unica figlia.

Io non potevo abbandonarlo, non faceva parte del mio carattere. Avevo solo lui nella mia umile vita. I due uomini presenti erano armati, erano messicani e la loro età si aggirava intorno ai trenta, se non di più. Appena mi videro cominciarono a parlare nella loro lingua, finì per capirci ben poco. Uno di loro mi tirò verso di se e cominciò a stringermi per le braccia, l'uomo mi puntò un coltello  alla gola e mio padre cominciò a piangere disperato. Aveva causato tutto lui, lui e quel dannato gioco d'azzardo. L'altro uomo cominciò a ridere divertito, tirò una pistola dalla tasca e la puntò dritta verso mio padre. No, lui no, non andava toccato. Mi dimenai per liberarmi, l'uomo finì per strofinare il coltello sotto il mio mento, marchiandomi con quella che presto sarebbe diventata una cicatrice. Non mi importava del dolore fisico, io volevo salvare mio padre. Mi lanciai, nel vero senso della parola,sul uomo armato per disarmarlo, e ci riuscii. Ma purtroppo non avevo tenuto conto che anche l'altro era armato. Alle mie spalle sentii partire un colpo, poi solo una fragorosa risata.

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