Capitolo 20: A domani.

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Non ho mai creduto in Dio, oggi più del solito voglio credere che non esista.
Se dovessi immaginarmi un Dio, lo immaginerei pulito, limpido, senza ombra di dubbio buono. Io non credo, ma soprattutto non voglio credere che permetterebbe ai suoi figli di essere così spietati e crudeli sotto il suo stesso occhio così attento e scrupoloso. 

Voglio limitarmi a pensare piuttosto che sia l'uomo l'artefice del bene e la causa del male sparso per il mondo da millenni. Non ha senso attribuire ad una terza mano una colpa od un merito solo per lavarsi la coscienza e sentirsi un progetto divino, con uno scopo ed un fine ben preciso.

Pensare non è mai stato un reato, ma delle volte non è neanche costruttivo, lo si fa per inerzia e magari di tanto in tanto i pensieri si traducono in progetti dando vita a situazioni reali. Secondo questa visione risulta assai surreale, a volte, pensare che dietro ogni azione ci sia davvero un pensiero, e se quest'ultimo, inoltre, sia o meno dettato da raziocino o semplicemente manipolato da istinti inafferrabili.

 Come si può anche solo pensare di creare uno spietato organo di corruzione e distruzione, bruciando ogni cosa o uomo che vi si pone davanti? Aberrante il richiamo del termine "bruciare", che rievoca nella mia mente senza difficoltà alcuna l'immagine vissuta da Elena un paio di anni fa.

Sono ancora sconvolta dalla capacità abominevole di quella donna, Maria, che armata di rabbia e assoluta spietatezza ha distrutto due vite con tale semplicità, rovinandone irreparabilmente altre due, ovviamente questo è solo un piccolo scenario che fa cornice ad uno stillicidio giornaliero.

Quello che più mi affligge adesso è la mia consapevolezza.
È vedere tutto con occhi sapienti, uscire da casa a distanza di cinque giorni dalla mia "scoperta" conoscendo cosa tormenta realmente le vite dei miei concittadini.

So che Elena ha detto che si sarebbe fatta viva lei, so anche che è fermamente convinta che non sia il momento esatto, ma è davvero possibile scegliere un momento in questa vita, soprattutto in questa città? Chi può dirci che quel momento poi, non sarà troppo tardi, o magari nettamente vanificato dalle situazioni?

«Ehm ehm.»
Un flebile colpo di tosse simulato riporta la mia mente al suo posto, il mio corpo adesso è di nuovo magicamente tra le mura del mio studio. Marco mi osserva imbarazzato, in punta di piedi ancora sul ciglio della porta, consapevole di aver appena "interrotto" un attimo di privata solitudine che non mi è insolito ricercare. «Mi scusi dottoressa, ma credo che dovrebbe vedere una cosa.»

È tarda notte, il mio turno è iniziato da poco più di un'ora, come spesso accade siamo io e lui la coppia notturna, e a quest'ora non capisco cosa ci possa essere di tanto interessante.
«Argomenta Marco, argomenta.»
«Prego, mi segua.»

****

«Ne parliamo a casa, dio quanto puzzi!»
«E dai, non rompere vieni qui.»
«Zitta e non toccarti lì. Ferma ho detto!»
«Sssssssh...ssssilenzio.»


Ci fermiamo dietro il vetro di una sala, Marco spalleggia titubante indicandomi le due donne che stanno discutendo: una distesa su un lettino con una fasciatura sul braccio e un sondino naso-gastrico attaccato, l'altra, invece seduta sulla sedia a fianco con fare preoccupato intenta a rimproverarla con lo sguardo severo.

«Poco fa sono passato di qui e ho pensato che volesse saperlo...insomma ecco tutto.» Marco non sa bene cosa dirmi, percepisco in lui disagio misto a curiosità avendo riconosciuto Elena le ultime volte che è stata qui. Lo ringrazio cautamente, felice di questo gesto inaspettato ed altrettanto ben accetto, gli passo una mano sulla spalla come per liquidarlo e si dirige di nuovo dall'altro lato del corridoio dopo avermi mostrato un dolce sorriso.

«È permesso?» Chiedo bussando due volte alla porta appena schiusa davanti a me. Lo sguardo di Eva drizza su di me felice come una bambina, ma noto subito gli occhi evidentemente arrossati che non danno giustizia ai suoi smeraldi solitamente vivaci e luminosi.

«Ammmiiica mia! Vieni qui che lei è propprrio una noia...» Biascica le parole con un filo di voce stridula, sicuramente sotto effetto di alcol, mi avvicino sorridendo ad entrambe e abbasso lo sguardo sulla cartella clinica prima di prendere parola.


Patologia: Intossicazione acuta da alcol di terzo stadio. Il paziente presenta confusione mentale, cute fredda e sudata, colorito subcianotico, pupille midriatiche e iporeattive alla luce, lieve ipotermia. Lavanda gastrica in corso.

«Ei che hai combinato eh?» Mi avvicino a lei, mettendole una mano sulla fronte constatando per fortuna una temperatura corporea già vicina alla norma.
«Nnniente, io mi stavo divertendo e poi è arrivvvata lei.»
«Dovremo tenerti sotto controllo per tutta la notte, perché non dormi un po'? Stanotte ci sono io in giro, spero che preferirai la mia presenza a quella di tua sorella.» Le sorrido notando Elena alzarsi e dirigersi verso l'uscio della porta.

Quasi a comando, dopo un paio di altre battute Eva si addormenta.

****
«Cosa le è successo?» Chiedo ad Elena, sedute fuori dalla sala con due caffè tra le mani.
Inizia a sbuffare, cercando di formulare qualche frase che forse non risulti esagerata nei confronti della sorella minore. «Sono tornata a casa e l'ho trovata così, ha bevuto non so quante bottiglie ed è inciampata dalle scale ferendosi con un vaso.»

«Era sola?»
«A quanto pare...sì.» Si porta la testa fra le mani, pressando come se quel gesto possa scacciare via dalle sue tempie un pensiero fisso.
«Ei Ele, si rimetterà presto....»
«Vorrei solo non essermi mai arruolata...» Ammette con un filo di voce, ancora con la testa china stretta tra le mani. Le poggio un palmo dietro la nuca, cercando di carezzare i suoi mali districando le dita nella sua folta chioma.

«Eva era molto legata a mamma e papà... sai come reagì dopo l'esplosione?» Tira su il viso per guardarmi, gli occhi grigi si tingono impercettibilmente di sfumature rosse ed io cautamente scuoto la testa in risposta alla sua domanda.

«Nulla, il vuoto. Non ne abbiamo mai veramente parlato. Dopo i funerali la sua mente ha fatto finta che non sia accaduto nulla, tre mesi dopo era già una matricola a Milano. Nasconde tutto il dolore sotto un sorriso, ma in fondo so quanto male io le abbia recato.»

 «Ti rendi conto di quanto sia impensabile tutto ciò? Come puoi additare te stessa per quello che è successo? Hai fatto il tuo dovere, loro, quei vermi hanno agito senza scrupoli.»
Mentre i nostri occhi si scrutano attentamente cercando nell'altra difetti che non sembrano esserci, veniamo distolte da rumori provenienti dalla stanza. Ci avviciniamo ad Eva intenta a muoversi affannosamente bisbigliando qualcosa.


«Mamma. Mamma, dove sei?»

Mi si gela il sangue nelle vene come se la mamma in questione fosse la mia.

 «Ei, tesoro sono io, Elena.» Le afferra dolcemente con una mano il braccio medicato e con l'altra le accarezza la guancia destra.

 «El...scusami, io...» La sua voce viene interrotta da un singhiozzo afono, unico, preludio di un pianto sommesso. «...scusami, sono stata una stupida, non avrei dovuto...»
«Shh, va tutto bene, domani mattina sarà tutto finito.» La rincuora baciandole la fronte, poi il suo sguardo guizza verso di me, quasi a chiedere conferma per quella frase buttata lì un po' a caso, speranzosa.

 «Quando il ciclo sarà finito se non ci saranno complicazioni potrai andare via. Facciamo così, sono già quasi le cinque, tra qualche ora sarà tutto finito e ti porto a casa con me. Che ne dici?»

Con mia grande sorpresa trovo entrambe incredibilmente felici da questa mia inaspettata proposta. Eva accetta senza batter ciglio e in una manciata di minuti riprende il suo sonno interrotto, Elena invece mi continua a guardare con uno sguardo che non riesco a decifrare, come sempre del resto.

«Sicura che non sia un problema?» Chiede mestamente lei, infastidita dai ripetuti bip dei macchinari attaccati alla sorella.
«Tu avrai da fare a lavoro no? Io sono sola a casa, ci prenderemo un birra al mare...»
«Oddio Vera per favore!» Inizia a ridere scuotendo la testa come a cacciare il momento laconico appena passato. «Tra poco devo tornare a lavoro, mi chiedevo se...»

 «Sì, assolutamente sì.» Non so a cosa io abbia appena risposto, ma era un sì che non ne voleva sapere di tacere.
«Stavo per chiederti se c'è un posto a tavola per me con voi domani sera, ma mi sembra di capire che è un sì. Giusto?» Mi chiede lei con un sorriso stupendo.

Una cosa sono riuscita ad appurarla da quando la conosco: preferisco non capirci niente, preferisco agire di istinti.
«Ehm, s-sì certo che sì. Non portare vino, mi raccomando.»

Ci siamo salutate così, con un sorriso che sapeva di speranze dentro un'aria di famiglia che aveva bisogno di essere ricucita nonostante la voragine procuratale.

Con un sorriso che, per la prima volta, recitava un silenzioso "a domani".

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