32: "Un uomo buono"

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In ospedale rimasi per poco più di una settimana e la maggior parte del tempo sotto antidolorifici a causa dell'assurdo fastidio che mi procurava la ferita alla coscia. Passati i dieci giorni però, riuscivo a stento a camminare - nonostante cercassi di fare del mio meglio, zoppicavo ancora molto -, ma i medici non ci pensarono due volte prima di dimettermi con tanto di raccomandazioni e indirizzi vari per i migliori fisioterapisti della zona.
Tuttavia, sembrava esserci stato un'altra ragione che li aveva spinti a farmi tornare al Complesso il prima possibile, o così mi aveva sussurrato una gentile infermiera alla mia uscita: un anziano e bigotto paziente del reparto di geriatria, in non si sa quale modo, era riuscito a vedermi utilizzare la telecinesi e aveva sparso la voce, generando attacchi di panico e nervosismi fin troppo esagerati per persone della loro età. Lo ammetto, fu difficile trattenere le risate quando sentii la storia per la prima volta.
D'altra parte, nonostante fossi tornata a casa e avessi ricevuto un sacco di gentilezze da parte di tutti gli Avengers - perfino Bruce, con cui non avevo chissà che rapporto, si premurò di insegnarmi alcuni esercizi per limitare il nervosismo scaturito dalle fitte di dolore -, il mio umore non poteva considerarsi dei migliori ed Enoch ne era l'unica spiegazione. Per quanto stesse reagendo bene alle cure, non era ancora uscito dal coma e i medici davano la colpa alla mutazione genetica scaturita da Alpha, dandolo pressoché per spacciato. Mi era inconcepibile pensare che un uomo così giovane, finalmente libero da ogni catena indesiderata, fosse incapace di vivere la vita che gli era stata per troppo tempo negata da una donna senza scrupoli. Ogni volta che ci pensavo, il che succedeva fin troppo spesso, piombavo in uno stato di tristezza tale che la mia stanza diventava l'unico luogo in cui riuscivo a trovare un po' di conforto perché avere gli Avengers intorno a fare mille domande non era mai l'opzione migliore.
«Posso entrare? Ti ho portato un po' di gelato e so che hai fame» parlò Bucky, dall'altra parte della porta che m'ero premurata di chiudere a chiave. Ridussi a icona la pagina web in cui campeggiava il logo di un sito di vendita e affitto appartamenti - non volevo scoprisse che mi stavo organizzando per andarmene da lì appena sistemata la "questione poteri" - e raggiunsi la porta quanto più velocemente possibile, sforzandomi pure di non zoppicare troppo.
Non feci in tempo a far scattare la serratura che quasi venni travolta dalla porta e da Bucky stesso che pur di non cadere a terra come un sacco di patate mi getto le braccia al collo e mi strinse a sé. Solo dopo realizzai che era un modo come un altro per abbracciarmi, cosa che succedeva assai spesso negli ultimi giorni, e prima di allontanarmi indugiai appena sul suo petto, ascoltando con un sorriso il battito veloce del suo cuore.
«Devi studiarle un po' meglio le tue entrate» ridacchiai, spostandomi di lato per lasciargli il passaggio. Rispose con un frettoloso gesto della mano libera prima di occupare il letto, mi invitò con un'occhiata a raggiungerlo e lo accontentai fingendo uno sbuffo scontento, ma solo dopo aver lanciato un'altra occhiata allo schermo del computer. Mi fidavo di lui, certo, sapevo che avrebbe capito le mie motivazioni, eppure non ero affatto pronta a dar voce ai miei dubbi.
«Dunque, è da due giorni che quasi non mi parli» cominciò, porgendomi il bicchiere con dentro gelato al cioccolato fondente, il mio preferito. Forse aveva preso un po' troppo sul serio il detto "Indorare la pillola", ma dati i risultati avrei aspettato ancora prima di lamentarmi sul serio. Mi limitai a guardarlo perplessa da dietro il cucchiaino colmo e lui accennò un sorriso sghembo, com'era solito fare quando si sentiva in dovere di dire qualcosa. «Quindi sarò io a riempire il silenzio, ci stai?»
Ecco, questa versione di Bucky mi dava sempre le farfalle nello stomaco. Adoravo quando usciva quella sua vena filosofica che cercava molto spesso - e con ottimi risultati - di nascondere agli Avengers, come se avesse il timore di far loro scoprire che pure lui aveva sentimenti e pensieri degni di nota. Quando si lasciava andare nei suoi sproloqui, le più delle volte rimanevo ad osservare il suo volto assumere espressioni sempre diverse o mi lasciavo cullare dal suono della sua voce.
«Lo prendo come un sì» ridacchiò appena e non potei fare a meno di sentirmi un po' in colpa nell'averlo ignorato. Dopotutto, be', stavo pensando a lui. «Sai chi è il Soldato d'Inverno?»
«Eri tu» mormorai, cominciando ad arrovellarmi nel tentativo di comprendere dove volesse arrivare. Conoscevo a grandi linee la sua storia o, perlomeno, ricordavo ben poco di tutti gli assassinii di cui era stato artefice ed usare il passato m'era venuto naturale perché conoscevo Bucky abbastanza bene da poter dire che lui non era più il Soldato d'un tempo.
«Mi piace questo "eri", ma non credo sia la risposta giusta. Io sono il Soldato d'Inverno e per sempre lo sarò: per quanto possa sembrare assurdo, finire tra le mani dell'HYDRA è stata una tappa fondamentale della mia vita ed è solo grazie ad essa che sono questa persona. Mi sono reso conto che non ti ho mai detto nulla di quegli anni e se vogliamo davvero che questa nostra storia vada avanti al meglio, ho bisogno di raccontarti ciò che ho fatto.»
«Bucky» lo richiamai, allungando una mano verso il suo viso dov'era già evidente la mascella contratta per lo sforzo: sembrava che parlare di ciò gli causasse dolore fisico e non potei fare a meno di spostare lo sguardo al suo braccio sinistro, laddove il metallo incontrava la carne coperta di cicatrici dall'aspetto orribile. Gli sfiorai una guancia con delicatezza, quasi sperando che bastasse quel tocco leggero per fargli sentire tutto il mio amore. «Io mi fido di te, non serve tutto ciò.»
«No, Millie, è questione di principio. Io conosco la tua storia, il tuo passato, ed è giusto che tu scopra il mio senza farti fuorviare dalle dicerie che, ne sono certo, ancora girano, specialmente nello SHIELD.»
Poggiai il bicchiere mezzo vuoto sul comodino e incrociai le gambe, poggiando i gomiti sulle ginocchia così da poter sostenere più facilmente la mia testa con le mani: se Bucky voleva davvero parlarmi di sé, non potevo far altro che zittirmi, ascoltarlo e tenermi pronta a consolarlo nel caso le emozioni avessero prevalso sulla forza d'animo.
«Ho ucciso tante persone che non meritavano di morire, ricordo i loro nomi uno ad uno e non è raro che di notte riveda i loro volti. Mi è difficile credere che non potessi fare nulla per evitare il loro controllo su di me; dopo aver ritrovato Steve, mi ci è voluto molto tempo per capire che non avevo alcun controllo su quella parte di me. Riuscire a concepire l'idea che bastavano undici parole per cancellare ogni accenno di umanità fu probabilmente il passo più difficile dato che le mie conoscenze scientifiche si limitavano alla macchina volante di Howard.»
Bastò quel misero nome per fargli perdere colore in volto e compresi al volo che stava ricordando qualcosa di assai spiacevole, tanto che non opposi alcun tipo di resistenza alla sua mano che si strinse quasi con violenza attorno al mio polso destro. Gli faceva male parlare del suo passato e avrei tanto voluto che smettesse perché proprio non mi andava di vederlo soffrire solo per rendermi partecipe della sua vita, mi sarei accontentata del silenzio se ciò significava saperlo sereno.
«Ho ucciso i genitori di Tony» sussurrò, incrociando il mio sguardo, e riuscii finalmente a dare una ragione alla totale freddezza che sembrava aleggiare intorno a loro quando stavano nella stessa stanza. Eppure in Italia le cose erano andate bene... avevano condiviso la stanza, le tecniche di combattimento, lo sforzo per proteggere me e il presidente Ellis.
«Di sicuro non sarò io a condannarti per questo. Sei un uomo buono, Bucky, e se gli altri non l'hanno ancora capito sono loro a perderci» tentai di rincuorarlo, consapevole che le mie parole non avrebbero di certo cambiato i suoi pensieri in un battito di ciglia. Mi allungai verso di lui e, attirandolo a me con le mani sulle sue guance, gli diedi un bacio a fior di labbra.
«So solo che sono fortunato ad averti al mio fianco» parlò, la voce appena sopra un sussurro, come se la sua affermazione dovesse rimanere un intimo segreto tra noi due.
Mi sfuggì uno sbuffo a metà tra il sorpreso e infastidito quando mi ritrovai con la schiena al materasso e Bucky sopra, ben attento a non toccarmi laddove le ferite non s'erano ancora rimarginate del tutto. Gli sorrisi un po' sfrontata, quasi sfidandolo ad andare oltre ciò a cui c'eravamo finora spinti, e questa volta non ebbe alcuna obiezione.

Ombre alla deriva »Bucky BarnesDove le storie prendono vita. Scoprilo ora