Per quanto avessi spesso delle idee insolite, una delle mie credenze più solide riguardava il fatto che per riconoscere una persona, certe volte, basta ben poco: il colore di capelli, una determinata postura, il modo di vestirsi, un profumo, una risata o una parola anche solo sussurrata. Poi avviene la magia; da un dettaglio si delinea una figura, un volto ben preciso, e con essa scaturiscono mille pensieri, mille ricordi.
Ciò fu proprio quello che mi successe una notte come tante altre, nel buio di una stanza d'ospedale identica a quelle vicine e nel sonno di una dormita così serena che, il mattino dopo, quasi stentai a crederci.
La prima cosa che vidi fu un grembiule da cucina grigio a stampa floreale poggiato scompostamente su una sedia della cucina della mia casa d'infanzia, la riconobbi subito per i disegni davvero bruttini attaccati al frigorifero con calamite a forma di lettere. Sfiorai il tessuto rovinato dell'indumento e lo scoprii macchiato di rosso in più punti: sussultai quando i polpastrelli sfiorarono una chiazza fresca, non potei fare a meno di pensare che fosse sangue, ma quando strofinai pollice e indice insieme mi resi conto che la consistenza non quadrava molto con la mia ipotesi. Sembrava più... sugo di pomodoro, ecco.
Mi avvicinai al piano cottura dove fino a poco prima borbottava una pentola chiusa da un coperchio in vetro e dentro vi scoprii la suddetta salsa, sorrisi inconsapevolmente non appena il profumo mi arrivò alle narici e non potei fare a meno di pensare che ne sarebbe venuta fuori un'ottima pasta all'italiana.
Alzai lo sguardo all'orologio a forma di tappo a corona, solo per scoprire che le lancette erano bloccate alle cinque e venticinque, e avvertii subito le palpebre farsi pesanti mentre la vista cominciava ad appannarsi senza alcuna ragione apparente. Mi passai una mano sugli occhi nel tentativo di scacciar via quel fastidio comparso all'improvviso, ma non ottenni nulla e in un battito di ciglia l'ambiente attorno a me cambiò drasticamente.
Una spiaggia dalla sabbia fine, un cielo carico di nuvole scure e minacciose e grosse onde ad increspare il mare. Mi bastò una parola pronunciata da una voce che quasi avevo dimenticato per farmi voltare e il mio sguardo cadde su una cascata di riccioli scuri: c'era una donna, di spalle, in maglietta e shorts che incitava una bambina dal corto caschetto castano a raggiungerla e tremai quando mi resi conto che ero ancora capace di camminare.
Feci un passo, studiando con attenzione la sabbia sotto i miei piedi, e improvvisamente il rumore delle onde che s'infrangevano contro gli scogli si zittì, mi ci volle tutta la forza d'animo possibile per non voltarmi verso il mare. Rimasi con la testa bassa, lo sguardo fisso sui granelli che sembravano far di tutto pur di sommergermi i piedi nudi, raggirai la donna - quasi andai a sbattere contro la bambina ora immobile - e solo allora provai a guardarla in viso.
«Mamma?» sussurrai, allungando una mano verso quel volto congelato in un'espressione a metà tra il preoccupato e il divertito. Sfiorai con delicatezza una guancia, presi tra le dita una ciocca di capelli scuri che sembravano tutto tranne che naturali in quel contesto così inverosimile e avessi avuto più coraggio le avrei lasciato un bacio sulla fronte. Guardai invece il mare, lasciando che la mente mi trascinasse via da quel frammento di ricordo appena vissuto.
Non mi resi subito conto delle lacrime che mi rigavano le guance, fu soltanto quando avvertii il sapore salato di una di esse sulle labbra che realizzai l'inconsapevole pianto scaturito dall'aver visto mia madre. Avrei voluto fermarmi un attimo a riflettere riguardo ciò che stava succedendo, ma una fastidiosa luce attirò la mia attenzione e ci mancò poco perché facessi il fatidico passo avanti: riuscii a bloccarmi in tempo, evitando così di ritrovarmi con un ricordo a metà.
«Millicent!» chiamò la voce di mia madre e sussultai sul posto, cercando la sua figura al di là del fascio di luce che, insieme alle lacrime, ancora comprometteva la mia visuale. La stanza in cui mi trovavo si illuminò e mi resi conto ch'ero di nuovo nella mia vecchia casa, più precisamente nella camera da letto dei miei genitori.
Che mia madre fosse bella l'avevo già intuito dal ricordo precedente, ma vederla adesso senza alcun "blocco" era tutt'altra cosa e non scherzavo affatto: il viso appena segnato dall'età era illuminato da uno splendido sorriso, i capelli sempre lunghi le ricadevano scompostamente sulle spalle e gli occhi scuri, così simili ai miei, percorrevano ogni angolo della stanza con estrema attenzione. All'improvviso si fermarono su di me, come se fosse stata capace di vedermi, sul serio questa volta.
«Papà sarebbe davvero orgoglioso di te, lo sai, piccola?» disse, per poi scoppiare a ridere. Boccheggiai, colta di sorpresa dalla sua affermazione, e avrei voluto risponderle, dirle quanto m'era mancato averla nei miei pensieri, nella mia memoria, ma mi ritrovai incapace di formulare la benché minima parola. Rimasi a guardarla quasi disperata, morendo dalla voglia di annullare la distanza che ci separava per gettarle le braccia al collo in un abbraccio da togliere il fiato, e attesi di ricordare ancora. «Diventerai un'ottima spia proprio come lui. La migliore dello SHIELD dopo l'agente Carter, ne sono sicura!»
Chiusi gli occhi nel tentativo di cacciar via le lacrime che continuavano ad offuscarmi la vista e quando li aprii mi ritrovai a fissare il soffitto bianco della stanza d'ospedale in cui ero alettata da fin troppi giorni.
«Ehi, ben svegliata» sussurrò Bucky, probabilmente sentendo il tonfo sordo della mia mano che colpì la testata del letto nel tentativo di alzare un po' il cuscino che avevo sotto la testa. Osservai la sua figura scura che si stagliava contro la luce del sole ancora presente nella stanza e non potei fare a meno di sentirmi terribilmente fortunata ad averlo con me, perché sapevo che si sarebbe seduto su quella seggiola sgangherata per ascoltare i miei nuovi ricordi. Era fatto così lui, l'avevo capito ormai da un po', e, in tutta sincerità, mi faceva piacere sapere che c'era davvero qualcuno disposto ad ascoltarmi.
«Stai piangendo, cos'è successo?» si avvicinò con cautela, la bocca tirata in una linea sottile e le sopracciglia abbassate come suo solito quand'era preoccupato.
«Nuovi ricordi» mormorai, serrando gli occhi affinché il viso di mia madre potesse comparire sulle mie palpebre chiuse. Un altro pezzo di puzzle era tornato al suo posto e non potevo fare a meno di sentirmi un po' più serena con me stessa: di quel senso di colpa causato dalla totale dimenticanza del suo volto, non c'era più alcuna traccia. «Mia mamma. Penso di non aver mai visto una donna cosa bella.»
«Sono sicuro sia così, dopotutto con una figlia del genere...» disse, facendo un ampio gesto della mano in mia direzione come se mi avesse appena presentato ad una platea di spettatori. Ridacchiai alla sua allusione, consapevole che si sarebbe spinto ben oltre se non stessimo parlando anche di mia madre. Allungai le braccia nella sua direzione in un tacito invito ad avvicinarsi un po' di più e non appena colse la mia richiesta riuscii a stringerlo in un abbraccio: avvertire il suo respiro infrangersi sul mio collo, le sue mani corrermi lungo la schiena fino a raggiungere la vita e i capelli solleticarmi la guancia fu davvero d'aiuto in quel frangente.
«Forse non è il momento più adeguato» cominciò ancora, lasciando volontariamente la frase a metà, ma senza sciogliere l'abbraccio. Arrotolai una ciocca di suoi capelli nell'indice e un sorriso mi incurvò le labbra, cosa avevo fatto per meritarmi un uomo del genere? «Mi ami davvero?»
Fui io ad allontanarmi da lui, totalmente presa alla sprovvista dalla sua domanda, e mi bastò vedere la sua espressione afflitta per comprendere che non avrei dovuto farlo. Dire "ti amo" non era un passo da prendere alla leggera, con quelle due parole si apriva un mondo nuovo - un rapporto vero e proprio - fatto di fiducia e tanto amore. Cosa provavo davvero per Bucky? Era un sentimento così forte da potergli dire "ti amo" senza ripensamenti oppure mi serviva ancora tempo per riflettere, per abituarmi a quella nuova realtà che mi si prospettava davanti?
«Credo di sì, Bucky» mormorai, evitando il suo sguardo quasi avessi paura di leggere nei suoi occhi del vero e proprio disappunto. Forse la sua era stata solo una domanda a trabocchetto e l'unica risposta che cercava era un secco "no", oppure mi stavo solo complicando la vita con domande inutili e facilmente ignorabili.
«Ehi, guardarmi» sussurrò lui, poggiandomi due dita sotto il mento così da guidarmi nell'alzare la testa. Quando incrociai i suoi occhi azzurri, lucidi di lacrime e colmi di speranza, fu difficile trattenere il primo singhiozzo: mi sentivo così sciocca a piangere in una situazione del genere - e per l'ennesima volta nell'arco di pochi giorni -, ma certe cose erano capaci di smuovermi sentimenti a lungo nascosti come null'altro al mondo. La fiducia che mi infondeva James Barnes con la sua sola presenza era una di queste cose.
«Non è mai troppo presto, no?» parlò ancora, facendo scivolare la mano libera sulla mia nuca, cosa che mi fece rabbrividire ma non distogliere lo sguardo. «Ti amo anch'io, Millie.»
Il bacio che coronò la sua dichiarazione fu piuttosto veloce, ma ciò che più mi colpì fu la presa delle sue dita sulla mia pelle: non che mi stringesse tanto da lasciarmi dei lividi, eppure non mi aveva mai stretta così tanto, come se avesse davvero paura che scomparissi da lì a poco. Lo lasciai fare però, perché, sotto sotto, mi andava più che bene così.Quando Tony entrò nella stanza senza nemmeno bussare, io e Bucky eravamo nel bel mezzo di una partita a scacchi - insistette così tanto per avere una rivincita che dopo dieci minuti di suppliche ininterrotte dovetti fermarmi a metà capitolo, cosa che non sopportavo, del libro prestatomi da Wanda - e solo allora si annunciò con un colpo di tosse fin troppo finto. Ci fu un fugace scambio di sguardi tra i due uomini e per la prima volta li vidi sorridersi a vicenda, cosa che destò la mia più completa attenzione.
«Vedo che passate il tempo in modo molto proficuo» brontolò Tony, sedendosi senza troppe cerimonie ai piedi del letto. Bloccai il telefono su cui stavamo giocando e gli riservai un'alzata di spalle, consapevole che non avrei avuto niente di serio - ed intelligente - con cui ribattergli.
«Qualche novità?» gli chiesi, restando volontariamente sul vago e sperando di non doverlo spronare con qualche domanda troppo mirata su argomenti che non m'andava di tirar fuori di mia volontà. Volevo che mi raccontasse degli Avengers, di Enoch, di zia Rachel che ancora non s'era fatta vedere o del processo contro il MOS.
«Alpha e qualche altro sono stati condannati a più di due ergastoli a testa al Rift, la maggior parte ha deciso di dichiararsi sotto il suo controllo mentale ottenendo così una pena minore. Per quanto riguarda l'agente Jones non ci sono novità, è stabile ma nulla di più.»
Annuii alle sue parole, accogliendo con estrema gioia la notizia della carcerazione di Alpha in una prigione adeguata ai danni che aveva causato. In tutta sincerità, un po' me l'aspettavo che tutti gli altri le voltassero le spalle pur di salvarsi il culo ed evitare di perdere l'intera vita in carcere, ma non potei fare a meno di sentirmi profondamente delusa da Fort e Flamme. Insomma, credevo che nonostante il controllo passivo di Alpha avessero sviluppato dei sani principi a cui appellarsi! Come avrebbero fatto ad abituarsi alla loro nuova libertà mentale se erano segregati tra quattro mura?
«Il motivo per cui sono venuto qui è un altro, però» parlò ancora Tony, facendomi tornare alla realtà in meno di un battito di ciglia. Con la coda dell'occhio guardai Bucky e dalla genuina curiosità sul suo viso compresi che non ne sapeva nulla neanche lui.
«Dai, sputa il rospo» lo incitai, incrociando le braccia al petto onde evitare di gesticolare troppo.
«Come ti trovi con i tuoi poteri? Cioè, so che non li hai mai cercati davvero e adesso potrebbero diventare solo un brutto ricordo di un altrettanto brutto periodo quindi... credo d'aver trovato qualcuno che può aiutarti a liberartene. Sempre se lo vuoi, ovviamente» parlò, quasi inciampando sulle sue stesse parole nel tentativo di esprimersi il più in fretta possibile.
Abbassai lo sguardo sulle mie mani e non potei fare a meno di chiedermi se quella telecinesi tanto sofferta era davvero diventata parte integrante di me. Era passato quanto tempo dall'esperimento? Poco più di sei mesi, sì, e questo era un periodo sufficiente affinché potessi abituarmi ad una novità del genere tanto da non volermene più separare?
«Chi sarebbe questa persona?»
«Shuri, sorella di T'challa, re del Wakanda.»Angolo autrice.
Ebbene sì, mi sono decisa a pubblicare questo capitolo che era pronto da un po'... sappiate che da adesso non ne ho più di pronti lol.
Sarò sincera: tempo per scrivere potrei pure riuscire a trovarlo, ma la scuola mi sta psicologicamente stancando un sacco e finisco sempre con il chiudere Wattpad senza nemmeno leggere gli aggiornamenti delle storie che seguo (aliss19 e piccolaGranger, mi riferisco alle vostre, giuro che non vi ho dimenticate).
Per non parlare della mia situazione sentimentale... sono piena di dubbi su un ragazzo che sa a malapena della mia esistenza ahaha.
E niente, spero che questo aggiornamento non abbia deluso troppo le vostre aspettative!
STAI LEGGENDO
Ombre alla deriva »Bucky Barnes
FanficErano passati quasi due anni da quando Hecate era stata arruolata nel MOS, un'organizzazione criminale segreta, e aveva perso ogni ricordo del suo passato. Bastarono soltanto un paio di mesi per abituarsi a quella nuova vita fatta di armi, esperimen...