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Quando riprendo conoscenza, mi trovo nella cucina dell'istituto, o almeno è quello che sembra visto che proprio di fronte a me vedo un grosso fornello in acciaio. Non l'avevo mai vista, a nessuno di noi era permesso entrarci e, pur avendo vissuto in questo posto la maggior parte della mia vita, cercando per lo più di non seguire le regole, per qualche strano motivo ho sempre rispettato quell'ordine.

Non ho quantificato il tempo in cui sono rimasta incosciente, ma non credo sia stato molto, poiché, Marta, la tutrice, sembra avere il fiatone, a riprova della fatica sostenuta per portarmi dentro. Ho la testa che mi pulsa, oltre a un grande senso di disorientamento, sono felice che mi abbiano portato qui e non dove Bella avrebbe potuto vedermi.
«Cosa è successo?» domando con la gola secca.
«Sei svenuta» mi risponde Marta, avvicinandosi al lavello e riempendo un bicchiere d'acqua.
«Forse dovremmo chiamare un dottore, non so se hai battuto la testa» afferma preoccupata, dopo avermi offerto da bere.
«No, niente dottori, mi sento già meglio» rispondo, mandando giù un considerevole sorso. L’acqua è fresca e nel momento in cui scende nella gola mi regala un senso di benessere e sollievo. Tento di alzarmi, il primo tentativo fallisce, sembra che le gambe abbiamo deciso di cadere in un sonno profondo, Marta continua a fissarmi muta, ma il suo sguardo è eloquente e mi sta dicendo: “Sei ancora testarda come dieci anni fa”. Ha ragione ma non m'interessa, ho deciso che devo alzarmi da questa sedia e lo farò, non voglio andare in ospedale e tanto meno voglio vedere qualche dottore; sono il mio incubo peggiore e la colpa è anche della signora che continua a fissarmi senza aprire bocca.

Al secondo tentativo mi metto in piedi, con un po' di fatica riesco a muovere qualche passo, verso il tavolo su cui vedo appoggiata la mia borsa, la apro e prendo il telefono. Chiamo Lilia per assicurarmi che sia a casa, non c'è ovviamente, ma quando le racconto cosa è successo e dove mi trovo mi comunica che verrà a prendermi insieme al tizio della chat, non obietto, anzi, mi fa piacere.
«Ok, vi aspetto» dico prima di chiudere la telefonata. Marta continua a osservarmi. Quando mi volto verso di lei, una moltitudine di ricordi affolla la mia mente e avverto l’impulso di correre via. Mi manca l'aria, in lei rivedo la mia infanzia, quando mi sentivo in trappola, privata di ogni forma di libertà.

Certe volte, pensavo che fosse un bene non avere una famiglia, immaginavo tutte le regole da seguire come imparare la buona educazione, prendere bei voti, rispettare i più anziani... lì, invece, ce n'erano solo due: non disubbidire a Marta e lavarsi le mani prima dei pasti, e per me erano già troppe. Dopo circa venti minuti arriva la mia amica, mi sono quasi del tutto ripresa e sono pronta ad archiviare quest'episodio per sempre. Saluto Marta che, dopo avermi ripetuto per l'ennesima volta di fare un controllo, mi lascia finalmente andare.

Il viaggio di ritorno è imbarazzante, la poca voglia di conversare mi rende sgradevole al compagno di Lilia, ma se davvero è così intelligente come lei afferma, capirà che è soltanto un brutto momento. Non appena arriviamo ringrazio e scendo dalla macchina, vedo la mia amica fare la stessa cosa, vorrei dirle che mi dispiace aver rovinato la sua domenica e che mi sento meglio perciò non c'è bisogno che torni a casa, ma sto zitta perché in realtà ho un disperato bisogno di lei e sono felice che non mi lasci da sola.
Mentre apriamo il portone del palazzo, qualcosa attira il mio sguardo, noto la stessa macchina nera che ho visto davanti all'istituto la settimana scorsa, si trova di fronte al bar in cui lavora Lucy, capto anche la stessa sensazione dell’altra volta, e cioè che qualcuno al suo interno mi sta osservando. Sbuffo indignata, non posso farmi coinvolgere da questi pensieri irreali e paranoici, ho già troppe cose a cui pensare, come l'adozione di Bella che è un duro colpo e il malore che ho avuto. Anche se non voglio andare dal medico, ultimamente mi sento molto affaticata e la cosa mi preoccupa.

***
La luce tenue della lampada illumina la mia stanza da letto, guardo il soffitto intontita dai mille pensieri che mi stanno letteralmente spaccando il cervello. Ripercorro l'intera settimana e, per un attimo mi soffermo su Finn, ripenso all'ultima volta che l'ho visto e al brivido che le sue parole mi hanno procurato. Stringo i pugni che ho poggiato sul petto, non desidero provare queste sensazioni, non voglio che un uomo occupi la mia mente.
L’ultima volta che mi sono interessata a qualcuno è finita molto male.

Come tutti i ragazzi normali, ai tempi dell’istituto, anch’io frequentavo la scuola dell'obbligo, con un'unica differenza: le nostre lezioni si svolgevano il pomeriggio. Avevamo anche un corso di musica, che era la mia materia preferita. Il mio professore, quell’anno, mi scelse per eseguire l'assolo la sera del concerto che si sarebbe tenuto il 24 dicembre. Era uno spettacolo di beneficenza, che permetteva all'istituto di ricevere fondi da persone benestanti. Inizialmente non volevo accettare, non mi è mai piaciuto il ruolo da protagonista, ma poi cedetti.

Insieme a me c'era Tyler, lui suonava il piano, ed era bravissimo. I suoi genitori facevano uso di droga e lui, per decisione del giudice minorile, era costretto a stare lì. Durante le prove ebbi modo di conoscerlo meglio. Era più grande di me di tre anni, io ne avevo dodici, ed era considerato uno dei ragazzi più belli della scuola. Proprio per questo, il suo interesse nei miei confronti mi risultava strano, però sembrava genuino.
Iniziai a fidarmi di lui e cominciai considerare la possibilità che fossimo amici. Una sera mi propose di vederci dopo il coprifuoco. Disse che aveva dei petardi, niente di pericoloso, anzi sosteneva che si saremmo divertiti a farli scoppiare. Decisi di assecondare quella piccola pazzia. Ci demmo appuntamento sotto il dormitorio delle ragazze, alle dieci.
Quando giunsi sul posto, il nervosismo mi stava mangiando viva, forse non era stata una scelta sensata, se mi avessero scoperta sarei finita in guai seri. Quando lo vidi arrivare con il cappuccio della felpa sulla testa e le mani in tasca, sorrisi. Sentivo di provare qualcosa per lui, me lo diceva il mio cuore con i suoi battiti accelerati. Tyler tirò fuori i piccoli oggetti da un borsello, prese un accendino, accese un petardo e poi lo lanciò. Lo scoppio mi fece sobbalzare.
«Prova tu» mi disse. Non appena eseguii, una voce alle mie spalle mi fa trasalire. La tutrice.

I miei occhi si inumidirono, il braccio di Tyler mi avvolse le spalle, mi attirò a sé. In quel momento mi sentii protetta, un leggero senso di sollievo si fece largo nella mia gola chiusa.
Forse, se avesse detto la verità, e cioè che era stata una sua idea, la mia punizione sarebbe stata meno dura.
Ma le cose andarono diversamente.

La tutrice, vedendomi tra le braccia del ragazzo, sembrò arrabbiarsi ancora di più. Ci interrogarono entrambi e Tyler incolpò me per l’accaduto. Credettero alla sua versione. La delusione che provai cancellò i miei sentimenti per quel ragazzo lasciando spazio a una sola parola: tradimento.

Il giorno dopo mi trasferirono in un altro istituto e mentre salivo sull'auto con le mie poche cose, evitai di voltarmi indietro. All’epoca ero poco più che una bambina ma quell'esperienza è rimasta incancellabile. So di essere una sciocca, alla mia età incontrerei uomini maturi e non quindicenni dispettosi, ma la paura di soffrire ancora mi frena.

Il ticchettio alla porta mi riporta alla realtà. Lilia fa capolino nella stanza.
«Come ti senti?» mi chiede, sedendosi sul letto.
«Meglio» le rispondo sorridendo e mettendomi a sedere con le gambe incrociate. «Bene, perché ho una proposta per te» afferma, ammiccando.
«Spara» dico incuriosita.
«Che ne dici di venire a cena con noi questa sera? Andremo in un nuovo ristorante in centro» propone estasiata. È innamorata, glielo leggo negli occhi, e io sarei una vera stronza a rovinarle la serata. Per questo rifiuto.
«Ho bisogno di riposare.» Non le sto mentendo, è la verità.
«D'accordo, però per qualsiasi cosa non esitare a chiamarmi» conclude, dandomi un bacio sulla guancia. Annuisco e mentre esce dalla camera penso che mi mancherà tanto.

Afferro il telefono e compongo il numero di Romeo.
«Ehi, piccola, tutto bene?» C'è confusione, sento la musica alta e voci di altre persone in sottofondo.
«Ti ho disturbato?»
«No, dammi solo un attimo.» Dopo qualche secondo, non sento più nessun rumore tranne quello del suo respiro.
«Che succede?» mi chiede. Sospiro cercando di trattenere le lacrime.
«Vuoi che venga da te?» domanda.
«No, non preoccuparti. Volevo soltanto salutarti» rispondo.
«Millie, sei sicura di stare bene?» Non voglio rovinargli la serata perciò non gli racconto nulla.
«Sto bene. Ci sentiamo domani» concludo e riaggancio.
Poso il telefono e mi sdraio sul letto, aspettando che il sonno arrivi.

Black Eyes ~ FillieDove le storie prendono vita. Scoprilo ora