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Credevo di essere una donna coraggiosa, pensavo che dopo ogni anno passato in solitudine nell'istituto, ogni umiliazione sopportata e le discriminazioni subite, niente e nessuno mi avrebbe fatto più paura. Invece, ho perso l'audacia, la sicurezza delle mie azioni, la freddezza del mio cuore. Tutto ciò che è successo è troppo grande per me.

Odio non avere sotto controllo le mie emozioni. Sto facendo un salto nel buio, ignara di come ne uscirò.
Salgo le scale con la stessa lentezza di una lumaca, sto facendo di tutto per guadagnare tempo e allungare i minuti che mi separano da mia madre.
Sono una codarda.
Quando salgo l'ultimo scalino ho il fiatone e mi sembra che tutta l'aria che serve per respirare abbia abbandonato i miei polmoni. Mi fermo sul pianerottolo, ci sono tre porte una accanto all'altra, mi avvicino alla prima ma non faccio in tempo a leggere il nome che la mia attenzione viene catturata dal cigolio di un'altra che si apre. Così mi ritrovo di fronte a lei.

Indossa una vestaglia azzurra di flanella e un paio di pantaloni della tuta blu, ai piedi ha delle ciabatte sempre sulla tonalità dell'azzurro. È proprio lì che si ferma il mio sguardo. Mi manca la forza necessaria per guardarla in viso. Mi aggrappo alla ringhiera, pronta a fare dietrofront.
Forse lei se ne accorge, oppure no, ma dalla sua bocca esce il mio nome, seguito dalla stupida frase: «Sono felice di vederti.» Felice.
Cosa si prova a essere felici? Non lo so perché non lo sono mai stata, e questo anche a causa sua.

Sento riaffiorare la rabbia che mi ha tenuta in piedi in tutti questi anni e punto gli occhi dritti nei suoi. Non serve alcun test del DNA, i suoi lineamenti sono uguali ai miei. Ciò che vedo non mi piace, mi destabilizza, mi terrorizza.
Non c'è nulla di peggio che incappare in qualcosa che hai bramato per tutta la vita: l'amore di tua madre.
Mi guarda, i suoi occhi sono dolci, malinconici, apprensivi. Sul suo viso, contornato da piccole rughe, posso leggere a chiare lettere l'affetto che prova per me. Questo non fa che aumentare il mio malessere. Sono venuta qui per uno scopo: avere delle risposte, e non voglio altro.

«Sono venuta soltanto per chiederti il perché» affermo con i pugni chiusi, e a passo lento mi avvicino a lei. Sembra così indifesa, piccola, stanca. Ricordo che Finn mi ha detto che è malata di cuore, sento un tonfo allo stomaco, chiaro segnale che farò di tutto per non farla agitare.
«Entra» mi invita, scostandosi dalla porta. Varco la soglia. Tengo la testa bassa per evitare di guardarmi intorno. Questa è la sua casa, qui è racchiuso il suo mondo e io non sono sicura di volerci entrare. Purtroppo non posso rimanere in questa posizione quindi, quando mi chiede di seguirla, guardo dritto senza voltarmi. Arriviamo in open space.

È arredato in stile rustico, è caloroso, e il buon odore mi mette a mio agio. Mi invita a sedermi al tavolo, mi chiede cosa preferisco bere ma accetto solo un bicchiere d'acqua.
Mia madre si accomoda di fronte a me. Rimaniamo qualche secondo in silenzio, entrambe ci studiamo, ci guardiamo come se non dovessimo rivederci mai più. Probabilmente è quello che accadrà.

«Ti racconterò la mia storia. La nostra storia» esordisce, facendomi sussultare.

***
Chiudo gli occhi per un istante, aspetto che mia madre inizi a parlarmi di me, di noi. Passano troppi minuti, il silenzio che rimbomba nella stanza è assordante. La guardo, chissà quanto rumore sta facendo la sua mente? Chissà quali parole userà per tirarne fuori i ricordi. Io, però, non ho tutta questa pazienza. Non voglio più aspettare.
«Perché lo hai fatto?» sbotto. La vedo sgranare gli occhi. Noto il suo petto muoversi sempre più velocemente. Non mi interessa della sua difficoltà nel parlare. So che è agitata, anche spaventata, ma sono qui per avere delle risposte e lei dovrà darmele.
Abbassa il capo, rimane a osservare le dita, pallide, incrociate sul tavolo. La sua figura è esile, minuta, ho paura di ferirla.
Dammi le mie dannate risposte.

Black Eyes ~ FillieDove le storie prendono vita. Scoprilo ora