Possibilità

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Appena messo piede fuori da quella casa, mi sono sentito meno in trappola e anche con l'afa che non dava respiro da giorni, i miei polmoni hanno ripreso a funzionare normalmente, senza nessun peso a rendermi faticoso anche il solo pensare.
Con Arianna, dopo aver caricato la macchina con un po' di scatoloni, eravamo venuti qui alla casa famiglia.
Non è poi così grande, il palazzo è più una villetta a tre piani, ha il garage dove ci sono bici, tricicli, vecchi tavoli, sedie e tante cose che non si sa dove mettere perché lo spazio in casa non è enorme. Appena si entra, sulla sinistra, c'è l'ufficio dove chi arriva qui deve obbligatoriamente andare, è diretto da Carlo, un amico di Arianna, laureato in scienze sociali, che insieme a sua moglie Clara si occupa di gestire questo posto. Sono persone molto disponibili e devo ammettere che mi fanno anche simpatia, Carlo in particolare, un omone alto più o meno un metro e novantadue, brizzolato, occhi grigi e un po' di pancetta in bella vista, cerca sempre di essere divertente con le sue battute che non fanno ridere mai nessuno, ma tutti glielo fanno credere sempre. Clara invece è tutta l'opposto, molto riservata, non supera il metro e sessanta, i suoi occhi color ambra colpiscono subito, sanno di dolcezza. È molto materna con i ragazzi che sono qui, in particolare con i più piccoli. Non avendo avuto figli loro, questa casa famiglia è la loro ragione di vita, vedo quanta fatica gli costi mandarla avanti, ci sono spese e costi da affrontare e non tutti coperti dal Comune e dalla Regione.
Qui ci sono dei ragazzi tra i dieci ed i diciassette anni, Clara e Carlo sono aiutati da uno psicologo e un assistente sociale che non vengono stabilmente, ma in una settimana almeno una o due volte sono sempre qui. E poi ci sono due operatori sociali e alcuni ragazzi che si alternano con il volontariato che vengono per aiutare i ragazzi con lo studio, lì accompagnano a scuola, sono presenti all'ora di pranzo. Non si sta fermi un attimo e la confusione non manca.

La villetta ha un piano terra, dove c'è l'entrata, l'ufficio di Carlo ed una porta da cui si accede al garage. Al primo piano c'è la cucina con la sala da pranzo ed uno spazio comune dove stanno i ragazzi, con la TV, divani, giochi. Al secondo e terzo piano ci sono le stanze dei ragazzi e di Clara e Carlo.

Gli sono grato  per avermi concesso di stare qui per tutto il tempo del mio periodo di "messa alla prova", non erano tenuti a farlo. So che Arianna ha messo una buona parola per me, ma avrebbero anche potuto opporsi, non sono proprio un esempio da seguire per i ragazzi che sono qui, ma loro hanno voluto darmi una possibilità.
In questo periodo mi hanno visto spesso, mi hanno sempre accolto senza mai farmi sentire giudicato, mi trattano come un ragazzo normale, uno tra tanti, non come un delinquente. Mi auguro solo di meritarlo il loro appoggio e la loro fiducia.

Dopo aver aiutato Arianna a scaricare gli scatoloni e aver sistemato i giochi in garage, mi sono fermato un attimo davanti alla porta del garage aperta, quella che dà sull'esterno della casa e non quella interna, ad osservare qualcuno dei ragazzi giocare a calcio.
Sono in quattro e il loro rincorrere il pallone, il loro giocare due contro due usando il cancello come porta, mi strappa un sorriso che mi ricorda il me bambino.
Io e Matteo ci divertivamo tanto a giocare a pallone per la strada e nel giardino di casa mia, con le piante nostre povere vittime e con  l'irritazione di mio nonno a rendere il tutto ancora più divertente.
Ero spensierato in quei momenti, erano gli unici in cui mi sentivo un bimbo normale ed è strano come tutto sia legato a Matteo, la persona a cui ho fatto più male, ma anche quella a cui ho voluto più bene.

"Ehi tu!" Una voce mi distrae dai miei pensieri.
"Potresti passarci il pallone per favore?" Mi scuoto un po' e vedo che il pallone è finito proprio accanto ai miei piedi.
Faccio per dargli un calcio e ridarglielo ma un ragazzino di circa dieci anni con ancora le lentiggini, bianco come una mozzarella e i capelli color carota ( non saprei come altro chiamarli) mi si avvicina.
"Potresti venire a giocare con noi? Davide" indica un ragazzino poco più in là "deve andare a finire i suoi  compiti e ora siamo con un giocatore in meno"
Guardo questo bambino ed i suoi occhi azzurri pieni di un'ingenuità che io non ho più, ci vedo dentro tutte le speranze ed i sogni che a quell'età sembrano tutti possibili e mi auguro che non scoprirà come me che c'è sempre qualcuno pronto a buttarli tutti via.
"Ehi! Hai sentito?" Mi richiede insistendo.
Faccio un cenno positivo con la testa ed il ragazzino davanti a me fa un bel sorriso e si rivolge ai suoi amici: "Ragazzi ho convinto il "tipo strano" a giocare con noi!"
Il tipo strano? Devo fare proprio una bella impressione ai ragazzi qui dentro, ma d'altronde fossi in loro mi definirei anche io così. Un musone, silenzioso e scontroso non può essere definito diversamente.
"Dai vieniiii" mi urla di nuovo il ragazzino.
Decido di raggiungerli e per scrollare il mito del "tipo strano" gli dico il mio nome.
"Ragazzi io sono Riccardo, sono strano, ma ho un nome"
"Ok, io sono Ivan e loro Francesco e Marco" dice capelli color carota indicando gli altri due suoi amichetti.
Credo siano più grandi di lui, avranno sui tredici anni. Francesco ha dei baffi appena cresciuti, capelli neri con la solita cresta ed è bello in carne. Marco invece è magrolino, niente cresta, ma ricci marroni sparati in tutte le direzioni, occhi castani e la faccia di uno che ne ha viste parecchie nonostante la giovane età.
"Allora cominciamo? Io e Francesco, contro te e Marco. Ci stai Ivan?"
"Certo che ci sto. Vedrete che vi faremo a pezzettini"

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