14.-Un sorriso o un ghigno maligno?

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Chiacchiere, risate, il suono della radio, il volante che gira.
Potrei dedicarmi ad ogni particolare, eppure so che non riuscirei a sentirli miei, non più.
Ho lasciato la mia copia in quell'abitazione a sfamarsi della beatitudine, a colorare le pareti fino a credere di appartenergli.

Non è così.

La mia vera casa sta aspettando, respira forte e il suo alito sbuffa i miei capelli con inclemenza, strattona i vestiti e li vuole strappare fino a ferire la carne.
Annuisco perché devo, però non sento nulla.
Vedo le bocche aprirsi e salutare, le mani si alzano e accompagnano le parole, gli sguardi si incrociano e promettono di rivederci.

Incredulo mi faccio sospingere da quella sensazione, lascio che le loro braccia mi cingano il corpo e faccio altrettanto.
Quando si allontanano portano tutto via, e non resta altro se non la triste convinzione di non avere altre frecce al mio arco per tenerli qui con noi.

«Perché non andiamo da Adel?» mormora Roberta tenendomi per mano, la mia unica ancora per farmi capire di essere ancora sulla terra, la stessa che cerca di seppellirmi ad ogni costo.

«Perché ho detto a Jack che ti avrei portata da lei per questi giorni e la data di ritorno dalla gita era oggi. Non deve sospettare nulla» rispondo automatico, cammino e mi sento come comandato da un ricevitore lontano, non di certo da me stesso.

«Jack» ripete mia sorella lanciandomi occhiatine dalla sua altezza.

Corrugo la fronte e per i primi secondi non capisco. Poi però la comprensione arriva: non l'ho chiamato papà.
Questa è una novità.
Scrollo le spalle e non aggiungo altro; mi limito a fissare la facciata della tana del mostro e a vederla sempre più vicina.

Siamo davvero qui, maledizione.

Ho creduto fino all'ultimo di essere in un incubo e che, una volta sveglio, avrei visto il sorriso di Mirko e udito la voce di Vittoria dalla cucina, il profumo dei cornetti e del cioccolato caldo nell'aria.
Torniamo alla realtà, inutile fingere sia diversa.
Afferro la maniglia e le mie dita accolgono il segno conosciuto, un contatto ormai stampato da anni sulla pelle.

Cigola, questa dannata porta cigola e ci dà il bentornato con quel suo patetico suono.
Apro la bocca un paio di volte, poi lascio uscire la voce ed è tutt'altro che alta, anzi, è un bisbiglio tenue e sfiatato.

«Siamo a casa.»

Questo silenzio è così vuoto che mi sento in dovere di riempirlo con un colpo di tosse.
Oh, be', io almeno ci ho provato.

«Dai, andiamo su» intimo a mia sorella, le gambe si muovono sempre più veloci e la porta della stanza si chiude alle nostre spalle.

Il profumo è sempre il solito, con la sfumatura di un pizzico di paura a macchiare le pareti lisce.
Sarei un pazzo a dire di aver sentito la sua mancanza? Insomma, è comunque il mio rifugio, il luogo dove trascorro la maggior parte delle mie giornate.
Roberta inizia a chiacchierare, forse desidera rompere l'assenza di suoni e io lo faccio con lei. Ben presto riempiamo il vuoto con delle parole accavallate, dei ricordi ancora freschi, con la gioia appena svanita.

Sistemiamo le borse e sorrido, tenendo tra le mani il flacone appartenuto a Mirko.
Muschio bianco, il suo preferito.
Apro il tappo e mi procuro male alle narici per quanto ne respiro, pizzica e scende giù nella gola, come se lo avessi ingerito.
Non importa, è un dolore piacevole.

«Questo è mio», esordisco agitando l'oggetto, «non provare a finirlo» aggiungo con una smorfia e Roberta tira fuori la lingua.

«Non la metto la roba da ragazzi. Io sono una ballerina» dice e rotea, il nuovo nastro rosa donato proprio da Agnese svolazza e crea una scia allegra.

Il suono della mia PauraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora