4-Una pioggia solitaria.

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Muovo lo sguardo attento su ogni angolo, scruto le assi della porta e delle finestre.
Ascolto il fiato alle mie spalle e sbuffo forte.

«Jacopo, la vuoi smettere di alitarmi contro come un bufalo?» lo rimbecco e lui, in tutta risposta, mi scansa di lato con uno scatto.

«Vado io, tu te la stai facendo sotto» mi provoca e io gli torno davanti con una mossa agile.

«Buono, buono, non provarci», ringhio spintonandolo, sorridendo alle due ragazzine dietro di noi, «vedrete, sarò un vero eroe» gonfio il petto sotto i loro sguardi in attesa di una mia azione.

Stupido gattino, proprio lì doveva andarsi a infilare? Che so, non poteva scegliere un albero, invece di una delle case abbandonate?
Chino il corpo e lo muovo con attenzione oltre le sbarre di ferro, qualcosa scricchiola sotto i miei piedi, forse dei vetri.

«Daniel, stai attento» si raccomanda Carmen dalle fessure, la sua vocina è alta e squillante, piena di preoccupazione.

Ghigno.
Tornerò vittorioso e sbatterò la vincita in faccia a Jacopo e al suo brutto muso beffardo.
Tutto ciò che dovrò fare, sarà raggiungere il cuore di quell'animale.
Scuoto la testa.
No, meglio puntare sulla fame. Difatti, stringo un sacchetto di premi succulenti tra le dita, soppesandolo con attenzione.

Posso farcela a tornare illeso senza qualcosa di rotto.
Cammino piano, nel mentre schiocco le labbra nel classico richiamo per gatti.

Penelope, dove diavolo sei ti andata a cacciare?

Mi guardo attorno, il sole filtra tra le tegole scheggiate e illumina la vastità d'erba su quello che una tempo doveva essere il pavimento; le mattonelle sono accavallate, spaccate a metà dalla forza degli anni trascorsi.
Getto una risata.
Chi vorrebbe vivere in quartiere così di merda? È normale che se la siano data a gambe.
Quando sarà il momento giusto, lo farò a mia volta, e addio a tutta questa miseria.
Sfioro le pareti, l'intonaco si sgretola sotto il mio tocco delicato.

«Penelope? Vieni qui, micetta» dico ad alta voce, agitando un paio di croccantini tra le dita.

Cavolo, sembra un enorme perdita di tempo.
Ho altro da fare? No, anzi, più ore passo qui fuori, più allungo la linea della mia vita.
Un guizzo verso l'alto e i miei occhi lo seguono.
Mi ritrovo a fissare il profilo sinuoso di un gattino di media corporatura, il pelo arancio è arruffato e sporco qua e là, il campanellino legato a un collarino rosa.

Faccio una smorfia di disgusto vedendola tenere tra i denti un animale peloso che pende ormai morto.
Ho capito perché non voleva avvicinarsi: tra un topo e questi premi, vince decisamente il primo.
La chiamo e tendo la mano, strofinando il pollice e l'indice tra loro.
Non si muove, resta in bilico sulla trave indecisa su cosa fare, proprio come lo sono io.

Potrei gettarmi in avanti prima che lei reagisca davvero alla mia presenza.
Non penso; mi muovo seguendo i pensieri, uno scatto di muscoli.
Ascolto il tintinnio dei croccantini a terra, si spargono ovunque e finiscono all'interno delle crepe.
Stringo i denti, la pelle del palmo inizia ben presto a pizzicare e a rilasciare piccole goccioline di sangue scuro.

Però, Penelope è con me e quello schifoso topo via dalla sua bocca.
Miagola, soffia, si dimena.
La tengo contro il petto e mi affretto a uscire, la luce del sole mi accoglie nella sua piena potenza e mi lascia frastornato per un paio di secondi.

«Tieni, mettila nel trasportino» dico affannato sigillando definitamente la gatta al sicuro dentro la gabbietta.

Merda, è stato complicato.
Soffio sul graffio e ci sputo sopra, ripulendolo dalla sporcizia. Una volta a casa, sarà meglio medicarlo, visto che in quel posto c'era di tutto.

Il suono della mia PauraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora