22-Un ragazzo da buttare.

127 18 16
                                    

Colpi di martello, o forse è un picchiare concitato a una delle porte fuori dal corridoio.
Cosa sta succedendo?
Stropiccio gli occhi, infilo i piedi nelle pantofole pelose e socchiudo l'uscio.
Assorbo ogni dettaglio mentre uno spicchio di luce si dipinge su di me e lì sosta per parecchio.
Papà è in piedi e bussa, bussa e ha la faccia calma e rilassata. Non è dello stesso avviso la sua mano che, precisa e letale, si scaglia contro la superficie e colpisce duro, il suono si ripercuote nel mio sterno.
Papà, cosa stai facendo?

«Non provare a chiudermi fuori. Apri questa dannata porta.»

Con chi parla?
Strizzo lo sguardo e vedo tutto sfocato, e so che sto piangendo, ma non ne capisco il motivo. Non è ancora accaduto nulla.
Le schegge del legno gli entrano dentro la pelle, si conficcano nel profondo e lasciano sgorgare piccole gemme di sangue. Ne posso quasi sentire il sapore nella mia bocca, il viscido liquido sulla lingua a colare fuori dal mento.
Lancia insulti e, ad ogni colpo, una vocina al di là della stanza lo implora di lasciar stare, di andarsene e tornare di sotto.
Non sembra Roberta.
Allora a chi appartiene questa voce femminile?
Sbatto le palpebre e vedo sempre più indistinto, adesso ci sono anche strisce di rosso nella mia visuale.

«Mamma» mormoro piano, così piano che non sono riuscito ad ascoltare la mia stessa voce.

Ci provo ancora, però i suoni sono forti, coprono il resto e non lasciano spazio a nulla. Un trambusto degno delle peggiori delle tempeste.
La figura di mio padre si trasforma di colpo in un'ombra capace di gettarsi sotto lo stipite e scomparire dall'altro lato.
No, no.
Non può entrare, non deve.
Esco nel corridoio, le pantofole sono scomparse e ho i piedi nudi, strusciano sul pavimento gelido, così freddo da darmi la sensazione di attraversare un percorso di vetri taglienti: ognuno di loro entra e scava i muscoli, fa sempre più male e raggiungo a fatica quella porta adesso silenziosa.

«Mamma?» ripeto, provo ad arrivare alla maniglia, ma è troppo in alto e proprio non ci riesco.

Voglio diventare grande.
Se lo fossi stato avrei potuto aiutarla a difendersi, e magari sarebbe ancora qui con noi. Se non fossi stato un bambino piagnucoloso sul bordo della ringhiera a guardarli litigare, invece di intervenire, avrei potuto dare alla nostra famiglia un senso.
Ci sarebbe ancora un noi, invece del vuoto tutt'attorno.
La porta si spalanca, cado dentro e il buio mi avvolge, si siede sul mio corpo e pigia verso il basso con insistenza. Non pensavo che l'oscurità potesse dimostrarsi così pesante.

«Perché sei nella mia stanza, bastardo?»

Non lo so, papà, scusa.
Perdonami, cercavo solo tracce della mia dolcissima mamma ormai dimenticata; i suoi contorni di un tempo; le statuine sul pianale; il buon profumo di petali delicati.
Ora il sangue lo vedo davvero e non lo sento solo strisciare fuori dalla mia bocca: mi ricopre del tutto, fa a lotta tra la rabbia e il nero riversato da mio padre con il suo corpo in collisione sul mio.
Divento un ragazzo rosso.
Un mostro, proprio come lui.

Spalanco le palpebre e invado lo sguardo di un azzurro limpido, la fragranza dei fiori è forte, l'erba fruscia mossa da un alito di vento gentile. Prendo un grande respiro e riempio i polmoni di un gusto diverso, cerco di cancellare le tracce di amaro dalla gola.
Sussulto sorpreso nel percepire una pressione sulla spalla, però, quando giro il capo, immergo il naso in una folta capigliatura nera.

Mirko.

Ah, già, siamo venuti qui per un picnic nel nuovo posto trovato qualche settimana fa da me e Roberta. Volevo mostrarlo anche a lui, renderlo parte del mio angolo di paradiso, come sono solito chiamarlo.
Solleva di poco la testa e mi sorride, brilla come il sole e mi toglie il fiato ogni volta. Vorrei scomparire nella sua dolcezza, inebriarmi e non averne mai abbastanza.

Il suono della mia PauraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora