28-Apnea.

147 16 9
                                    

«Sei sbagliato, dillo anche agli altri.»

Il mio riflesso dentro lo specchio ci tiene a guardarmi dritto negli occhi, a lanciarmi uno sguardo significativo al quale devo credere con tutto me stesso.
Ho trascorso l'ultima mezz'ora a ripetere sempre le stesse frasi.
Forse, se le ripeto ancora una volta, ci crederò davvero.

«Tu sei come i tuoi amici, e quello che hai fatto fino ad adesso è stato un errore.»
O almeno lo dice mio padre.
Ah, magari fosse solo lui.
Basta pensare, mi sento stanco. Dev'essere perché non ho dormito neppure per un secondo, incapace di trovare una posizione senza provare dolore in ogni parte del corpo.
Mi guardo ancora, scruto la parte più interna delle mie iridi e non mi riconosco.
Il verde è sempre stato così spento?

«Ti devono credere come loro.»

Prendo il respiro.

«Sei come loro.»

Lo lascio andare fuori.

«Come. Loro.»

Stringo i denti e mi sento stravolto, il fiato difficile da incanalare, le dita tremolanti aggrappate con forza al lavandino.
Posso crederci.
Devo, o il cappio al collo stringerà sempre di più, e non so quando questo accadrà. La scure sulla mia testa è affilata, brilla di una luce nuova, e non sono disposto a perderla per qualcosa che non solo uno trova sbagliato, ma un branco inferocito pronto a fagocitarmi tutto intero senza neppure masticare.

È importante ciò che provo, i miei sentimenti, ma non tanto quanto la salvezza di me stesso.
Un discorso che si accartoccia come un foglio sempre più rotto, dispiegato e poi accartocciato ancora.
Perché non ne capisco il senso?
Sento come se di colpo io abbia perso la conoscenza delle parole e dovessi ricominciare da capo a imparare, a guardare, a respirare.
E non ci riesco.
Ho poche nozioni, e le poche che ho devono bastare a spianarmi la strada e non a sotterrarmi sotto di essa, la terra giù nella gola fino a riempire i polmoni di nero.

Un paio di rintocchi alla porta del bagno mi fanno sussultare, poi il faccino di Roberta fa capolino oltre lo stipite e la vedo osservarmi nel vetro.

«Facciamo tardi a scuola, fratellone» dice in un soffio, ancora troppo scossa dagli ultimi eventi.

Si sono susseguiti con una tale velocità da stordirla. Se poi ci mettiamo in mezzo l'ingrediente segreto del terrore e la paura, ecco che abbiamo un piatto completo.
Un treno a tutta velocità, e ci ha colpiti entrambi in pieno.
Scontro frontale, fratture infinite su ogni osso.

«Sono pronto» rispondo e tento un sorriso, ma l'occhiata di traverso allo specchio mi vede rimanere fermo e impassibile.
Oh, be', andrà meglio alla prossima.
Scendiamo le scale e, a qualche gradino che dà sul corridoio, osservo mio padre quasi a un passo dalla porta della cucina.
Ci vede e si blocca, il tempo di caricarci con un'occhiata penetrante e gelida al pari di un pugnale conficcato nelle orbite una, due, tre volte.

«Noi... andiamo a scuola» bisbiglio senza troppa forza e lui incrocia le braccia.

Si avvicinerà? Si terrà lontano?
Le sue azioni, anche le più stupide, mi fanno fremere il cuore, tremare e sudare freddo.
Sento ancora il dolore dei suoi colpi recenti sul mio corpo, un tappeto su cui mi ha calpestato incurante del male provocato, ed è il dentro ad essersi spaccato, una ceramica troppo fragile e scheggiata che ha infine perso lo smalto a tenerla integra.

«Andate, allora. Cosa cazzo fate ancora in piedi davanti alla porta?» mi incalza e non me lo faccio ripetere; un secondo e siamo fuori, il suono dell'uscio chiuso a decretare la nostra salvezza momentanea.

Il manubrio della bici cigola e prima o poi mi deciderò a metterci un po' d'olio per renderlo meno rumoroso.
Roberta mi tiene per la vita, non pigia troppo e talvolta lascia dei baci delicati in mezzo alle mie scapole.
Dolcissima, la mia coniglietta.
Apro e chiudo la bocca, poi lo faccio ancora e finalmente trovo la voce. Cavolo, c'è voluto un po' per riuscirci.

Il suono della mia PauraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora