29-Perdere la voce.

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Non avevo mai capito quanto potesse dare fastidio un continuo borbottio al di là di una porta chiusa, fino ad adesso.
Osservo le figure nere oltre il vetro smerigliato: si muovono come se non appartenessero a questo mondo, e potrei quasi pensarle al pari di fantasmi ultraterreni giunti a perseguitarmi.
E invece no, sono solo Adel e il preside, le voci si sentono fino alla mia sedia, poco vicina alla presidenza.
Dondolo i piedi e fisso il soffitto, la punta delle scarpe gratta le mattonelle appena pulite.

«Il ragazzo ha subito un trauma recente, e sarebbe bello se lei e i docenti gli veniste incontro.»

Questa è Adel.
Se fosse uno strumento, le assegnerei una bella tuba.
La immagino borbottare, suonare e fischiare nel suo solito modo rigido e autoritario.
Sorrido tra me e me, sposto gli occhi e li blocco sul preside.

E lui? Che strumento diventerebbe?

«Capisco ciò che dice, lo capisco davvero, signora. Vedremo cosa poter fare a riguardo.»

Un flauto, magari, o un clarinetto: ubbidiente e con la schiena piegata da una personalità più forte.
Piuttosto semplice la scelta.

«Cosa fare a riguardo? Il ragazzo ha smesso di parlare. Mi vuole forse spiegare in che modo potrà recuperare le ultime interrogazioni, visto che non c'è tempo? Sono certa saprà concedermi più di questa risposta tiepida.»

Sospiro e giro il corpo, le ginocchia nude contro la plastica e le braccia posate sul davanzale della finestra. Ascolto le foglie carezzarsi le une con le altre, il vento a disegnare volteggi tra loro e a scuoterle con gentilezza.
Pigio la guancia sull'avambraccio e i capelli lisci ricadono di lato, alcuni ciuffi catturano la polvere sul marmo e i residui di insetti morti chissà da quanto.
Voglio andare via.
Non me ne frega nulla di essere bocciato, promosso o tutte quelle fesserie lì. Tanto la scuola rimarrà un inferno, i corridoi pieni di avversari a placcarmi e buttarmi giù come la peggiore partita di rugby.
Ha insistito la mia tutrice per venire qui, e io ho scosso le spalle e mi sono adattato.

Non mi interessa, sul serio.

«Daniel, andiamo.»

Scendo dalla mia posizione e seguo Adel, i passi di Roberta subito dopo di me. La sentiamo lamentarsi del sistema scolastico e della scarsa competenza di quell'uomo definito letteralmente: stupido omuncolo.
Blocco la sua camminata per abbracciarla, chiudo le palpebre e le strofino la schiena con i palmi.
Tutto ciò che sono in grado di fare.
La voce è scomparsa come svanisce un fiocco di neve a tenerlo troppo tra le dita.
Tornerà? Non tornerà?
È uguale.

«Tranquillo, ci penso io a te» mi rassicura con un sorriso gentile e io faccio altrettanto, o almeno ci provo. Dicono tutti che non so più sorridere, eppure io mi vedo nello specchio di casa mia e ho le labbra belle tirate in su.

Sempre il solito Daniel.
Il solare ragazzino con la battuta pronta.
Sono questo, giusto?

Sì, solo questo.

A nessuno importa di ciò che c'è dentro a un corpo finché non si muore e si deve capire il motivo. Per il resto dei giorni si viene feriti ripetutamente, il coltello affonda, la lama penetra i muscoli e li taglia fino alle ossa dove la punta batte per cercare di scalfire e buttare giù anche quelle.
Importa a qualcuno quanto dolore può creare?
No.
La gente non ragiona, non lo fa davvero.
Il sasso viene lanciato in aria e se colpisce un bersaglio, pazienza, purché non colpisca loro stessi.
E mannaggia a me, io non lo so lanciare il maledetto sasso; so solo ricevere i colpi.
Mio padre dice sempre di attaccare prima di essere attaccati, però non sono ancora riuscito a tatuarmi sulla pelle il suo consiglio.
Perché sembra proprio una bella frase, forse una delle poche pronunciate da lui a cui dovrei dare retta.

Il suono della mia PauraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora