Erano anni difficili, quelli. Anni in cui il consumismo americano aveva lasciato spazio al contrabbando. E la concretezza si sgretolava al suono degli spari, si dissipava nei fumogeni, seguiva il gracchiare degli altoparlanti. Esisteva solo in virtù di un coprifuoco fittizio, di un proibizionismo rivisitato. Niente speakeasy, nessun locale clandestino, solo terrore – puro e semplice terrore. Sembrava quasi di essere tornati indietro nel tempo: ci si nascondeva in casa, nei sottoscala, perfino nei tombini delle strade perennemente pattugliate dalle Armate che si dicevano alleate. Ogni rumore era un boato nel petto, ogni passo pareva una marcia funebre. Ma non esistevano corpi, non c'erano mai cadaveri. Quando l'aria gelava nelle vene, quando le nuvole grigie ricoprivano il cielo e lasciavano cadere la neve sulla Vecchia Washington, la gente spariva e basta.
Questo, quantomeno, era ciò che sapeva Jeremy.
Gli occhi vispi e un sorriso da Stregatto. Guardava il colosso dalla pelle d'ebano che gli sedeva di fronte e, di tanto in tanto, si domandava se fosse opportuno aprire bocca, parlare, scoprire quantomeno il suo nome. Eppure non muoveva un muscolo. No, batteva solo le palpebre. Raggomitolato in terra, con i pantaloni inzaccherati di melma verdognola e feci, studiava la sua fronte crucciata.
Era un volto provato, segnato da profonde cicatrici infette e occhiaie violacee.
«Cos'hai da guardare?» La voce bassa, roca.
Jeremy scosse la testa e si strinse nelle spalle. Decise che lo avrebbe chiamato semplicemente Colosso. «Niente» borbottò. Solo allora si rese conto di quanto fosse stato inopportuno, ma non osò scusarsi. Distolse lo sguardo, lo puntò su un topo di fogna che squittiva a un metro di distanza. E deglutì, sì, perché la sola idea di avvicinarlo gli sembrò quasi appetibile. Tuttavia non ebbe il tempo di farlo, perché il Colosso ci si avventò sopra.
«Non pensarci neanche» disse. Lo ammonì senza mezzi termini, torcendo la testa del topo e affondandoci subito i denti. Non considerò neppure per un istante l'idea di condividere la sua cena con quel ragazzo sconosciuto, anzi: strappò un pezzo di carne, sputacchiò un po' di pelo e tornò ad azzannare con foga.
Jeremy deglutì a vuoto e scosse nuovamente la testa. Erano giorni che non mangiava, esattamente da quando si era rifugiato nelle fognature a causa dell'improvviso raid dell'SRF. «Non ci stavo affatto pensando» mentì.
«Bene.» Lapidario e diretto, il Colosso si ritirò nel cono d'ombra del condotto. Poi, accovacciato, continuò a divorare il topo. Sembrava una bestia, sì, e Jeremy aveva paura anche solo a guardarlo.
Eppure non riusciva a distogliere lo sguardo dalla sua sagoma scura, dai suoi vestiti cenciosi e sporchi di sangue. «Di che sa?» Domandò d'un tratto.
«Di merda» bofonchiò l'interpellato. Si voltò giusto per lanciare un'occhiataccia a Jeremy, poi tornò al suo daffare senza ulteriori complimenti.
«Allora perché lo mangi?»
«E tu perché vorresti mangiarlo?»
Jeremy deglutì a vuoto. Lo guardò attentamente: le dita nere che grondavano sangue, che separavano la pelliccia fetida dalla carne marcia. Sentì un conato risalirgli lo stomaco, ma lo trattenne in fondo alla gola. «Non voglio mangiarlo.»
«Buon per te» gracchiò. «Perché questa è casa mia, moccioso, e tu sei soltanto un ospite indesiderato.»
«Casa tua?» Jeremy aggrottò le sopracciglia con fare perplesso.
«Che c'è, non ti piace casa mia?»
Alle orecchie di Jeremy suonò come un ringhio, e forse lo era davvero. Perciò si mordicchiò l'interno delle guance, ponderò l'idea di darsela a gambe il prima possibile e tentò addirittura di giustificarsi con un: «Non ho detto questo.» Allora sentì un plof – il tuffo della carcassa del ratto nella melma delle fognature – e trasalì.
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Butterfly Theorem
ActionJeremy Hunt ha perso tutto, ogni cosa: non ha un posto dove stare, tantomeno un motivo per continuare a vivere. Ma non è il né il primo né l'ultimo. Sono ancora gli anni Settanta, tuttavia sembra che le lancette del tempo si siano fermate da un pezz...