Capitolo 45

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Il Dottor Howard allungò una mano verso l'interruttore, scoprendo a malincuore di essersi dimenticato di acquistare delle nuove lampadine per il lampadario del salone. Allora sospirò, si passò una mano sul volto stanco e, camminando nella penombra, raggiunse la poltrona accanto all'abatjour. Tirò la cordicella verso il basso, facendola tintinnare appena, infine si lasciò abbagliare dall'alone giallino di quell'unica fonte di luce e sedette pesantemente contro i cuscini smunti.

Attorniato dal caos più totale, dopo aver posato entrambe le braccia sui braccioli, prese un grosso respiro nel magro tentativo di rilassare i nervi. Tuttavia non ci riuscì, anzi – sembrava che questi non volessero proprio saperne di lasciarlo stare, di farlo rilassare. Ed era notte, ancora una volta notte fonda.

Non sapeva cosa fare per addormentarsi, per accantonare le discussioni e le frecciatine cui aveva assistito dopo l'arrivo di Ezekiel nella Sala Comune. E più ci pensava, più non riusciva a distendere i muscoli del viso. Continuava a rimuginare, a pensare ad Acke e al pericolo che aveva corso per un piano di ribellione cui avrebbe voluto tenerlo all'oscuro. E il mal di testa lo tormentava: scivolava dalle tempie alla fronte, dalla fronte alla nuca, dalla nuca all'intero cranio.

Sbuffò, si guardò attorno e vide solo scartoffie ammassate, bottiglie vuote, piatti sporchi e fazzoletti usati. Allora si umettò le labbra, si massaggiò la sommità del naso e, nel tremolio della luce giallina, sentì gorgogliare il proprio stomaco. «Non adesso» si disse, ignorando il languore che s'ingigantiva. «Non ho proprio voglia di mangiare...» E sorrise, sì, perché pensò che se Acke fosse stato presente lo avrebbe rimproverato. Poi si alzò, si spostò mollemente verso il tavolo e ancora più in fondo, verso il mobile in legno scuro cui tirò fuori un flaconcino di sonniferi. «Devo solo dormire» fece. E se ne convinse a tal punto che ne inghiottì un paio dopo aver versato dell'acqua in un bicchiere vicino.

Erano potenti, funzionali e potenti. Il Dottor Howard lo sapeva bene, perciò non si fece domande quando, mezzora più tardi, iniziò a sentire le palpebre pesanti. Ma non si mosse dal salone, no, e sedette sulla stessa poltrona accanto all'abatjour accesa cui aveva preso posizione all'inizio. Una pistola carica in mano e lo sguardo vacuo, fisso sulla televisione spenta.

Non si accorse neppure di aver preso sonno, tuttavia si svegliò di scatto alle prime luci dell'alba. La gola secca, le fauci impastate dal sonno e lo sguardo arrossato dalla stanchezza gli fecero intendere che non avesse neppure sfiorato la tanto agognata fase REM. Eppure si sollevò, sgranchì i muscoli della schiena per poi dirigersi in bagno.

Quando raggiunse il Dipartimento Medico dell'SRF aveva in mente soltanto una cosa: raggiungere Duncan, affrontarlo, magari anche sfidarlo in un faccia a faccia. Perciò non si diresse verso il proprio studio, ma si fermò al piano dedicato al dipartimento di diagnostica. Lì attese, ponderò, riordinò le idee prima ancora di varcare la soglia di metallo. Infine si convinse a fare un ingresso trionfale, deciso, e disse: «Cerco il Dottor Halldórson.»

A rispondere fu un suo collega: «È nella stanza in fondo.» E la indicò con un gesto rapido, sorridendo all'indirizzo del Dottor Howard.

«Grazie.» S'indirizzò verso la porta incriminata, percepì l'odore stantio del tabacco bruciato e schioccò la lingua con stizza. Ormai era certo che Acke avesse detto solo e soltanto la verità, non una storiella a caso per impressionarlo. E il fatto che ne fosse cosciente, che gli facesse ribaltare lo stomaco, lo incattiviva dentro – nel profondo, nelle viscere. Per questo dovette trattenersi dallo spalancare la porta con irruenza. «Dottor Halldórson...» lo chiamò. Bussò e attese di essere ricevuto dopo aver aggiunto a gran voce: «Sono il Dottor Howard.»

«Arrivo.» Duncan non disse altro, non prima di aver aperto la finestra e aver mancato un battito. Era consapevole di non aver ancora steso alcun rapporto sull'incidente di Acke, ma era altrettanto conscio del fatto che la verità sarebbe venuta aggalla in men che non si dica. Così, dopo aver preso un grosso respiro, aprì la porta e posò una mano sul montante per osservar il Dottor Howard da vicino. «Sì?»

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